Quando un artigiano fa della propria arte e del proprio ingegno, doti senza le quali alcuna impresa è possibile, il mezzo per valicare la dimensione angusta del quartiere della propria bottega, ad un tempo attraendo folle dalla città, dalla regione, dal continente, e proponendosi con nuove botteghe oltreoceano, c’è poco da discutere, gli si deve riconoscere il merito e la dignità dei migliori tra gli esseri umani.
Gino Sorbillo, senz’altro, è uno di questi. Assorbito il mestiere dai nonni, dai genitori e dagli zii, ne ha fatto la base per innovare una tradizione, migliorando il prodotto e professionalizzando la gestione anche con tecniche marketing. Ha dimostrato che la pizza può non essere solo destino e sopravvivenza, ne ha fatto il simbolo di una vocazione che può essere risorsa con cui conquistare un successo economico e di popolarità, con cui contribuire a migliorare la propria città. Oggi ha sette pizzerie in due continenti e folle di estimatori che attendono di poter mangiare la sua pizza larga, popolare.
L’uomo è incline a un uso sapiente dei social, si dimena tra le timeline di Instagram, Facebook, Twitter meglio che tra i tavoli e somministra oramai quasi più foto che pizze. Con stile dylaniano da Subterranean Homesick Blues, comunica in still image con cartelli scritti a mano, tenuti in mano appena sotto un’espressione che oscilla tra look patinato con occhiali cool east-side Manhattan, patema e sofferenza. Diffonde così i suoi messaggi ora per sostenere battaglie civili, ora per denunciare atti violenti, ora per rivendicare la propria fermezza contro l’illegalità, ora per far valere la bellezza di Napoli, sempre per consolidare la propria immagine. È bravissimo. Con questo sistema ha anche annunciato, qualche giorno fa, l’attentato subito in piena notte al più antico e iconico dei suoi locali, quello di via dei Tribunali.
La matrice dell’attentato non è ancora chiara e Sorbillo stesso è stato incapace di identificarla, attribuendola prima a tifosi violenti e razzisti, forse risentiti dei suoi messaggi contro i cori discriminatori negli stadi, poi a famiglie criminali. Quale che sia l’origine e la motivazione dello scandaloso atto criminale, Gino Sorbillo ha giustamente raccolto un coro unanime di solidarietà, prontamente rilanciando un messaggio per il riscatto e la purificazione del centro storico dall’inquinamento malavitoso.
Non usi ad unirci ai cori, abbiamo scelto la via concreta di sostenere l’attività di Sorbillo, facendo due passi dalla redazione per andare a mangiare la pizza nel locale di via Partenope.
Una sorpresa brutta, però, ci ha colti quando il cortese cameriere ci ha distolto dall’onirico cui inducevano il mare spazzato dal vento, i gabbiani che volavano con geometrie confuse ma precise, il cielo azzurro, i batuffoli di nuvolette candide, il sole alto, accecante sopra Posillipo. La pizza dell’alleanza, la pizza condita col ben di dio dei Presidi Slow Food, si presentava arricchita da una anonima salsiccia appena arrossata da scaglie di peperoncino tritato. Una salsiccia altra da quella annunciata in menù, la rossa di Castelpoto (comune del Beneventano noto per una salsiccia preparata a partire da un impasto di carne suina e polvere di peperoncino essiccato e polverizzato). L’onirico interrotto dall’incubo della mistificazione, dell’imbrogliuccio, è terribile. Il dubbio che alberga nell’animo di ogni appassionato di cibo come di ogni cronista ha inguaiato la pizza, avendo costretto a ispezioni, ingrandimenti, assaggi e riassaggi. Il signor Superio gridava nell’orecchio “no, non è possibile che pure il grande Sorbillo incespichi nell’uso di prodotti diversi da quelli indicati col loghino Slow Food sul menù e che fanno lievitare i prezzi delle pizze. No, non è possibile, sei tu che stai sbagliando”. La salsiccia rossa di Castelpoto, però, la conosciamo benissimo. Mentre altri mangiavano la pastina in brodo, questo disgraziato uomo che son oggi, cresceva a piatti di salsicce rosse di Castelpoto a colazione, pranzo, merenda e cena.
Sarà capitato, chi lo sa. Al prezzo di quella pizza, in quel luogo, sotto quelle insegne diciamo che l’errore è scarsamente scusabile e lo sarebbe ancor meno ove la rossa non fosse proprio in frigorifero.
Bomba o non bomba, caro Gino, occorre forse un po’ d’attenzione e coerenza in più, almeno quella tra declamazioni in menù e piatto servito.
Il tema del non corretto uso del marchio dei Presidi Slow Food lo abbiamo già denunciato su queste colonne qualche mese fa. L’associazione fondata dal buon Carlin Petrini ha scelto la via dell’omertà. Resta il fatto che pare sempre più evidente lo scollamento di questa meritoria associazione tra i valori proclamati e il suo concreto agire.
In un commento postato su Facebook, rispondendo a Gianna De Lucia, già fiduciaria e consigliera regionale Slow Food, che lamentava un atteggiamento lassista di molti fiduciari in ordine all’uso dei loghi e dei prodotti dei Presidi, Antonio Lucisano, noto e autorevole personaggio pensante del mondo dell’enogastronomia e dell’impresa agroalimentare ha scritto: “è la dimostrazione che nessun progetto di valorizzazione dei prodotti di qualità può reggersi senza un sistema di regole e controlli e anche di sanzioni, quando le regole sono disattese”