di Gennaro Malgieri
Nell’estate del 1844 una grave carestia, conseguenza di una siccità insolita, gettò nello sconforto Solopaca e buona parte della Valle Telesina. L’agricoltura subì danni che si ritennero irreparabili. Ai solopachesi, contadini e possidenti, non restava altro che raccomandarsi al Signore affinché facesse cessare quel castigo e mandasse abbondanti piogge per limitare almeno in parte gli effetti della tragedia che si annunciava.
Qualcuno si ricordò che nel vecchio campanile della Chiesa parrocchiale di San Mauro giaceva abbandonata la statua della Madonna del Roseto, lì custodita per modo di dire, dopo il devastante terremoto del 1805 che aveva distrutto il Santuario sulla Montagna omonima dove da tempo immemorabile troneggiava. Santuario che era stato per secoli luogo di culto preservato e curato dai benedettini che ivi fondarono, probabilmente nel VII secolo, un cenobio la cui storia quanto mai affascinante e ricca di risvolti religiosi e civili, è stata più volte frammentariamente rievocata perlopiù da sacerdoti e da prelati che riconobbero nel sito un luogo di spiritualità non secondario nel Sannio.
I solopachesi, dunque, memori dell’antico culto, si aggrapparono all’ultima speranza che gli restava. Riesumarono dalla spessa coltre di polvere che su di essa si era depositata e trassero dall’abbandono la statua della Madonna, le cui origini erano e restano piuttosto misteriose e controverso il suo ritrovamento. Riportatala all’antico splendore, l’esposero alla pubblica venerazione. In seguito portarono la benedicente icona in processione per tutto il paese fino al monte che era il suo luogo di ricetto naturale. E nel mezzo delle rovine, non più rimosse dal tempo del devastante sisma, tutto il popolo fece voto che la Chiesa sarebbe stata rifabbricata in riparazione dei peccati commessi, della dimenticanza – diciamo così – per quasi quarant’anni dell’ esistenza della statua in un posto indegno e del trascurato impegno di ricostruire il monastero sul quale le lotte di potere dei piccoli vassalli e feudatari locali si erano esercitate fino a distruggere sostanzialmente un più che millenario luogo di culto, ben prima che il terremoto si accanisse su ciò che retava di esso.
Naturalmente pregarono la Vergine di intercedere presso il Signore di alleviare le pene del suo popolo mandando l’acqua che sollevasse le sorte delle terre arse a beneficio della vita e della prosperità dei suoi figli. Il vescovo Angelo Michele Iannacchino, nella sua Storia di Telesia, ricordando gli eventi riportati, annotò come la Madonna del Roseto, “esaudì le preci di chi la invocò con fede e per pioggia abbondante, caduta appena che il popolo colla statua discese dal monte, rifluì la vita nei seminati presso a inaridirsi ed ubertoso ricolto allietò quel popolo che già ne disperava”.
Da allora la venerazione della Madonna del Roseto non è mai venuta meno. In seguito ad alterne vicende, la statua venne tenuta nel suo luogo naturale fino al 1854 quando tornò in paese sulla spinta della richiesta di un altro miracolo: la fine di un’epidemia di colera che fece numerose vittime. Poi passarono lunghi anni e, dopo discussioni perlopiù civili che ecclesiastiche, venne deciso che per tre mesi d’estate, da giugno a settembre, la statua della Madonna avrebbe soggiornato a Solopaca nella cosiddetta Chiesa Madre.
Nel corso del tempo, si sono manifestate diverse opinioni al riguardo che Alessandro Tanzillo, studioso ed appassionato cultore di storia locale, ha riassunto in un libro di raro fascino e suggestione nel ricordare la storia del romito, poi convento e monastero badiale connesso con il culto della Madonna del Roseto allo scopo di rinvigorire l’attenzione sul sito religioso e sulla sua presenza, oltre che sacra, anche culturale nella comunità solopachese e della Valle Telesina. Il volume, Il Santuario della Madonna del Roseto nel XXI secolo, rivela fin dal titolo l’intento dell’autore: attualizzare una “presenza” spirituale e laica, allo stesso tempo, in grado di raccogliere la popolazione rinnovandone la tradizione – e su questo punto Tanzillo offre al lettore una dotta e godibilissima esegesi sulla dicotomia Tradizione/Modernità – e restituendo antico splendore ad una delle più amate consuetudini locali che fanno parte di una storia che presso le giovani generazioni si sta perdendo.
E’ questo il motivo che ha indotto Tanzillo a riproporre un tema che è stato molto dibattuto nel passato sulla definitiva collocazione della statua della Vergine o sul periodo di permanenza nell’abitato solopachese o ancora sulla inamovibilità dal Monte che porta il suo nome, curiosamente sguarnito della presenza della statua d’estate quando sarebbe il caso di tenerla lì per avvicinare i visitatori nella bella stagione. Ed ancora che cosa fare del complesso badiale che potrebbe essere utilizzato proficuamente come luogo di spiritualità, di incontri, di convegni.
Insomma, l’autore, al di là del racconto – desunto da testi che risultano attualissimi per comprendere una storia complessa e suggestiva – prova a proiettare la vita del Santuario nel nuovo Millennio nella prospettiva “di difendere la nostra identità collettiva” la quale, secondo Tanzillo, che personalmente condivido, “dipende esclusivamente dalla capacità di mantenere vive e di tramandare, ma anche innovare, le tradizioni nelle quali l’identità stessa trova il proprio fondamento”.
Insomma, per Tanzillo “il compito a cui siamo chiamati oggi è quello di creare una tradizione originaria al servizio delle esigenze del presente, senza una acritica osservanza di una tradizione che non vanta antiche origini (quella del “discesa” e della “salita” della statua), come abbiamo ricordato”. Piuttosto è il caso di mettere in campo iniziative tali da valorizzare il culto, il significato, la storia, l’identità di tutto un complesso religioso e culturale, ma anche civile, che s’intitola ad una prassi che affonda nella notte dei tempi e costituisce una delle tessere del mosaico solopachese e telesino.
Ripensare e rinnovare, dunque, è la strada che sembra essere la più intelligente e produttiva in questi tempi di distrazione di massa che rischiano di cancellare la memoria. E senza memoria, come si sa, non vi è futuro, neppure per le piccole comunità che sono il sale di comunità più vaste.