Diciamo la verità: quel pezzo di carbone fa male, è una pugnalata. A nulla valgono tutti gli altri dolci, i più zuccherini e colorati che ci siano, che riempiono la calza della Befana, i pancini e i pancioni di bimbi e adulti. Nulla allevia quel cruccio spugnoso che invade e ammorba come un veleno, diffuso da una vena nera per tutto il corpo non appena si afferra, tra le cianfrusaglie argentate e dorate, il carbone. E a nulla vale il fatto, tutto contemporaneo, che sia di zucchero: è duro, rompe i denti, annerisce le labbra, brucia la gola. Ulteriore peccato, inganno, condanna, manifestazione tangibile di una colpa segreta o misteriosa, irrimediabile comunque, che bisogna credere esistente come in fede, come qualcosa di sacro.
La Befana giunge da non si sa dove, probabilmente dal regno pagano degli dei, da Diana che con le sue ancelle volava sui campi per donare fertilità. Giunge assieme ai Magi, saggi astrologi, che viaggiarono da oriente a Betlemme e divennero tre solo nel medioevo, quando pure presero il nome con cui oggi li appelliamo: Melchiorre, Baldassarre e Gaspare.
Quella dell’ Epifania e della Befana sono storie incerte in cui si intrecciano credenze, racconti biblici, usanze pagane. Storie ricche di simboli propiziatori, di rinnovamento, di purificazione, di colpevolezza, di benevolenza. La befana è ambivalente, sia vecchina benevola che strega malvagia, in essa convivono bene e male, ma solo da quando è stata assorbita dal cattolicesimo.
L’acquisizione cattolica del rito pagano ha trasformato, infatti, la cenere e il carbone, segni di rinnovamento in quanto resti del falò dell’anno passato o di ogni spirito maligno, nel simbolo di una colpa ereditata forse dalla vecchietta che non volle indicare ai Magi la strada per la capanna del Re.
Non c’è malessere più atroce di quello che viene dalla condanna per una colpa ignota e generica. Non c’è gelo più feroce di quello che paralizza quando ci si scopre imperfetti per le persone cui più si è legati, genitori, partner, coniugi, amici. Perché questa tortura l’ultimo giorno di festa? Perché dare una connotazione così dolente a un giorno già malinconico, che chiude un periodo di calore e affettuosità, di giochi e soavità?
Una denuncia inutile, ignorante perché aliena dalla persona e da qualsiasi fatto specifico: qual è la cattiveria che abbiamo commesso? Era malanimo ciò di cui ci siamo macchiati o solo un inciampo? Ce la si dica la colpa e ci si conceda di poterla spiegare, di poterci scusare e di esser perdonati. Il carbone è un’accusa cieca, un’inquisizione disperante che annichilisce, asfissia, intristisce.
Un allievo sensibile e distratto da pesanti disagi familiari, un giorno che fu chiamato a rimediare a un compito sbagliato, parlando delle sanzioni previste dall’ordinamento giuridico per le violazioni di legge, disse: è giusto ricevere una penalità, ma tutti sono sempre concentrati su ciò che è stato fatto di male e condannano e giudicano, nessuno si interroga su come mai a una persona capita di sbagliare, di comportarsi male. Ecco, cara Befana, almeno tu considera le attenuanti, generiche come la colpa di cui suoli accusarci.
Una supplica, dunque, ti rivolgo affinché ti liberi da quella punta di malvagità o risentimento o spirito giudicante e punitivo che accompagna la confezione e l’inserimento del carbone nella calza, altrimenti preparata con affetto.
Non siamo tutti innocenti, abbiamo tutti sbagliato, per fortuna. Lascia dire a ciascuno le sue colpe quando sarà il momento, non accusare ciecamente, non incolpare per il passato e per il futuro, non lasciare alcuno nella agitazione del perché: perché questo amaro zucchero? Perché, che ho fatto? Perché, che farò? Volevo essere buono!
Cara Befana, dunque, sii solo bella, seppur grinzosa, su quella scopa tra le stelle e compiaci il bello di ciascun bimbo, piccolo e grande di età, che ti attende trepidante e speranzoso.