di Giancristiano Desiderio
Si può decidere, come ha fatto la giunta della Camera di commercio di Napoli, di rimuovere una statua ma è impossibile rimuovere la storia. Quando lo si fa si rischia o di cadere nel ridicolo, come ha giustamente detto Paolo Macry, o di arrecare danni alla conoscenza. E’ il caso della memoria del generale Enrico Cialdini e del suo busto marmoreo che si trova nel salone d’onore del palazzo di Piazza Borsa ma che secondo il presidente Ciro Fiola deve sloggiare al più presto: “Possiamo anche darla via, di certo non ci sarà più posto in una posizione così di prestigio”. Nella città di Vico e di Croce ci si aspetterebbe, anche da chi per mestiere fa altro, una maggiore sensibilità storica. Già l’idea che si debba dividere la storia in buoni e cattivi è un danno, giacché la storiografia, che ci libera dal passato, serve a comprendere e non a condannare e se, invece, si continuano a emettere sentenze, il passato non passerà mai e sarà un’ossessione; ma nel caso specifico di Cialdini al danno si aggiunge la beffa. Infatti, quali sono le sue “colpe”? La vulgata dice: l’eccidio di Casalduni e di Pontelandolfo e la morte di centinaia o migliaia di persone. Ma si tratta, appunto, di una vulgata che, costruita negli ultimi anni, risale a Giacinto De Sivo, e che è tempo, ormai, di mettere seriamente in questione.
Sui fatti di Casalduni e Pontelandolfo ho scritto un libro che uscirà alla fine del mese di gennaio: Pontelandolfo 1861. Tutta un’altra storia (Rubbettino). Su questa materia da tempo si accendono polemiche inutili perché ognuno dice la sua da tifoso, mentre per raccontare la storia servono documenti altrimenti la storia è muta. Nel caso di Cialdini si dice che, dopo la strage dei quaranta soldati italiani ad opera di briganti e contadini, il generale per rappresaglia diede l’ordine di intervenire sui due paesi. Sennonché, la strage dei soldati ci fu l’11 agosto 1861, mentre l’ordine di Cialdini (è una delle novità del libro) è del 10 agosto. Ecco il testo del telegramma: “Trasmetta ordine di S.E. il Generale Cialdini al Colonnello Negri di marciare su Pontelandolfo e dare una severa lezione ai reazionari che sono in quel paese e quindi visitare Cerreto”.
Il destino di questo telegramma è fondamentale per sapere e per capire cosa accadde in quel tragico agosto nell’Alto Sannio: infatti, il telegramma giunse nelle mani di Negri solo la sera del 13 agosto ossia ben quattro giorni dopo. In quei quattro giorni non solo ci sarà la strage dei soldati inermi, ma lo stesso Cialdini non avendo avuto notizie della missione di Negri darà ordine al maggiore Melegari, che si trovava a Napoli, di recarsi a Casalduni e poi a Pontelandolfo. Ma l’arrivo di Melegari attraverso Maddaloni, Solopaca, Guardia fino a Casalduni era noto agli stessi briganti della banda di Cosimo Giordano che evacuarono proprio Casalduni, che era indifendibile, e si prepararono a difendere Pontelandolfo tendendo ai soldati di Melegari una trappola prendendoli tra due fuochi, come avevano già fatto con successo quattro giorni prima con i soldati del tenente Bracci. Sennonché, qui accade un altro colpo di scena: il telegramma del 10 agosto giunse finalmente nelle mani di Negri che si mosse da Benevento verso Pontelandolfo. Così i briganti, che volevano cogliere di sorpresa i soldati di Melegari, furono a loro volta colti di sorpresa dai soldati di Negri e invece di prendere gli altri in trappola, furono loro ad essere tra due fuochi. La banda Giordano scappò lasciando Pontelandolfo indifesa. A loro volta gli abitanti, che non dormivano ma attendevano, fuggirono nelle campagne. Ci furono così tredici morti e non centinaia. Come si può capire, è tutta un’altra storia in cui il caso e la tragicità non si fanno ricondurre a facili schemi ideologici e a divisioni tribunalizie e antistoriche di buoni e cattivi.
Se volete, rimuovete Cialdini, ma la rimozione della storia è impossibile.
tratto dal Corriere del Mezzogiorno del 22 dicembre 2018