di Giancristiano Desiderio
Il riconoscimento che il Sannio ha avuto dall’Europa quale capitale europea del vino per il 2019 si basa su un capitale umano che, lavorando nelle vigne del Signore, ha rivoltato le zolle sannite come un calzino e in circa trent’anni ha trasformato queste terre da ettari incolti in moderne aziende che hanno permesso a tutti noi – il Sannio – di fare non uno ma tre passi avanti sulla via del progresso agricolo, economico e civile. L’iniziativa di proporre alla comunità europea un intero territorio – non grande ma di certo neanche piccolo – che gravita intorno all’uva, alla vendemmia, alle bottiglie ed a cinque comuni capofila come Guardia Sanframondi, Castelvenere, Solopaca, Torrecuso, Sant’Agata dei Goti testimonia che il lavoro fatto sulla terra e con i piedi per terra ha sviluppato anche una coscienza dell’opera che ha giustamente chiesto di essere rappresentata sul piano internazionale. A dimostrazione, se ce ne fosse davvero bisogno, che il Sannio una volta che ha inventato e conquistato se stesso ha, poi, il suo naturale e storico sviluppo in un’Europa che, senz’altro migliorabile, non è né matrigna né despota ma la nostra grande occasione di sentirci ed essere nazione europea. La trasformazione della cantina e del vecchio vino da taglio in imprese ed etichette non è stata fatta grazie ai fondi europei?
L’importante riconoscimento ha molti volti e tanti aspetti che meritano di essere messi in luce. Sanniopress, nell’anno entusiasmante che abbiamo davanti (tra parentesi: l’anno che verrà sarà anche il ventennale di Sanniopress, ormai la più antica, ahimè, voce critica del Sannio), si soffermerà sui volti e i meriti dei vignaioli alla sua maniera, esercitando quel libero giudizio che non recrimina ma valuta l’opera nell’unica intenzione di continuare il lavoro usato. Uno stile che, del resto, su queste pagine il nostro Antonio Medici pratica da sempre contribuendo in modo efficace, non senza leggerezza ed ironia, a valorizzare la cultura enogastronomica sannita confrontandola con uomini e donne, tavole e gusti di un mondo più vasto al quale la Capitale sannita e il Capitale umano e danaroso devono guardare come loro naturale orizzonte per camminare ed avere un ruolo in un mercato allo stesso tempo popolare ed elitario. Qui, ora, voglio sottolineare solo due aspetti.
Solo tre anni fa il Sannio sembrava essere irrimediabilmente in ginocchio sotto l’acqua fangosa di un’alluvione fin troppo evitabile. Si temette anche per i vigneti e la vendemmia. Ma chi passa al di qua e al di là dei due dorsi del Taburno e accarezza con lo sguardo il Titerno può vedere come i vigneti sono al loro posto, in faccia al sole, e anche quelli che tra Ponte e Torrecuso sono stati colpiti non sono stati affondati. L’opera dell’uomo è tenace. Il riconoscimento europeo giunge in un momento in cui la rappresentanza politica sannita è silente e la rappresentazione di questa terra che di solito la politica prova a dare fallendo è, ormai, vacua. L’invenzione del Sannio – perché di questo si tratta – non è stata opera della politica ma di agricoltori, contadini, enologi, imprenditori e di agricoltori che si sono fatti imprenditori, contadini che si sono trasformati in fattori, enologi che hanno coltivato il vizio e il gusto della diffusione della cultura del buon vino, imprenditori che hanno diversificato e hanno sfidato se stessi. Il risultato è che le aree interne, come viene chiamata l’area sannita nel giornalismo napoletano, sono cresciute prendendo di sorpresa una classe politica che è rimasta indietro. Raggiungere il Sannio nel 2019 non sarà facile perché le vie di comunicazione sono poche e malmesse. Bisogna essere consapevoli anche delle non poche zone d’ombra e agire di conseguenza.
L’altra considerazione che va fatta è che non solo la politica non traina e va a rimorchio ma anche Benevento non è una locomotiva ma solo un vagone e, forse, un vagone letto. E’ probabile che sia nella logica delle cose: i vigneti vogliono la campagna, non la cittadina. Tuttavia, Benevento segna il passo anche in quello che dovrebbe essere il suo ruolo decisivo: l’alimentazione e la custodia della cultura del vino del Sannio. Il signor Aglianico e la signora Falaghina sono vini belli e buoni che hanno una loro fetta di mercato – non grandissima, ma ce l’hanno – e, tuttavia, il vino può essere venduto in due modi: smerciato o raccontando una bella storia. Chi verrà il prossimo anno nel Sannio vorrà sentirsi raccontare una bella storia e vorrà bere il vino apprezzando tutto ciò che intorno al vino ci può essere e deve esserci secondo estetica, accoglienza, mondo. Ogni volta che si toccano parole come “cultura” o “identità” si rischia di scivolare nella retorica e anche questo articoletto rischia di fare la stessa fine. Eppure, le coppie cultura e vino, cultura e Sannio stanno insieme e cadono insieme. La cultura non è una teoria ma una pratica e ha a che fare direttamente con la vita economica, morale ed amministrativa dei paesi e delle contrade che sono chiamate a fare un salto di qualità nella logica del buon governo o dell’autogoverno che, in fondo, è stata la chiave di volta che ha fatto del vino del Sannio una storia di successo.