di Amerigo Ciervo
Noi siamo come le foglie. Il “meraviglioso popolo greco” comprese, prima e meglio di ogni altro, quale fosse il senso di tutto quel chiassoso e disordinato ambaradan che chiamiamo vita. Tutto ciò che nasce è destinato a morire. Tra parentesi: se il mondo classico fosse destinato, come pare sia nell’intenzione di molti padroni del vapore, a tirare, tra qualche tempo, le cuoia, ci augureremo che Zeus lo abbia in gloria e gli serbi un angolino del Parnaso. Ma, per ora, grazie a Dio, esso continua a vivere.
In una delle prime lezioni, chiedo, di solito, alle ragazze e ai ragazzi delle classi che mi vengono affidate, chi sia, secondo loro, il santo patrono della filosofia. La condizione, s’intende, è che la filosofia possa o debba avere un santo patrono. O che possa aver bisogno di un santo patrono. Le risposte si attestano – c’è ancora uno zoccolo duro di cattolicesimo, sia pure solo anagrafico o di facciata, in questo paese – tra Tommaso e Agostino. Grande è la delusione nei loro volti quando rispondo che, a mio giudizio, il patrono della filosofia dovrebbe essere considerato Pulcinella. “Ma non è un santo”, ribatte qualcuno, “è una maschera!” Certo, impietosamente ribatto, ma tutto ciò che è profondo, ama la maschera. Cosicché, poiché nessuna chiesa ha mai pensato di “santificare” Pulcinella Citrulo, dovremmo essere noi ad assumercene il compito. Ad un amico che continuamente sostiene, scherzando ma non troppo, che debba essere Acerra la capitale “morale” d’Italia, avendo dato i natali a Pulcinella, rispondo di approvare la sua intuizione, seppure per motivazioni opposte o differenti – secondo lui, italiano pessimista, siamo pur sempre “il paese di Pulcinella”-, non avendo compreso la radicale tragicità della maschera napoletana. Ossia della maschera della città più greca d’Italia e, di conseguenza, della città più filosofica.
Il gesto con cui Pulcinella viene, di solito, rappresentato nelle statuette di terracotta di San Gregorio Armeno – mano chiusa non a pugno, nel segno che l’abate Di Iorio, autore di un trattato ottocentesco sui gesti degli antichi partenopei, mette in relazione con la postura di chi sta interrogando – è l’equivalente della domanda filosofica di fondo. In lengua napolitana, potremmo tradurre liberamente con: e pecché? Pulcinella, come un bambino che si stupisce del mondo, non si arresta alla prima risposta, che non gli basta, e continua con i suoi “e pecché?”
La questione è molto più complessa. La storia della filosofia ufficiale non ci racconta come Pulcinella sia giunto a Napoli, direttamente dal Parnaso, dal monte che è sede delle muse. Qui ha assistito alla feroce ira di Zeus per le colpe degli uomini. E’, insieme alle coppie di tutti gli altri animali, sull’arca, con la famiglia di Noè, il mai abbastanza venerato “inventore” del vino e, naturalmente, il protagonista della prima ubriacatura, raccontata, peraltro con dovizia di particolari, anche un po’ crudi, in un libro sacro. Affacciatosi, pare si sia rivolto al vecchio patriarca, ponendo, da buon filosofo, una domanda: “Scusate, signor Noè. Mi sbaglio o fora è maletiempo?” Romeo De Maio, nel suo Pulcinella, il filosofo che fu chiamato pazzo, ci racconta il suo arrivo a Napoli.
Anche il destino che lo portò a Napoli fu tragico. Apollo lo diede per compagno alla sirena Partenope, colei che ostentava troppo la malia del suo canto. Il suo canto era soave di tono e profondo di pensieri: portava insieme all’amore e alla morte, seduceva. Partenope era caduta in tristezza e non poteva più vivere quando sortì sconfitta da un cimento canoro con Orfeo. S’inabissò nel mare. Pulcinella si perdette con lei. Ma un giorno le onde deposero il corpo della sirena su una delle più fascinose spiagge del mondo: gli abitanti stupirono della sua bellezza e le eressero un sepolcro splendido. Ma lei era divina, e risorse: ed essi trasformarono in altare il sepolcro e da lei si nominarono partenopei. Allora le maghe si raccolsero in gran consiglio nelle viscere del Vesuvio, dove Pulcinella si dibatteva. Non fu facile per loro deliberare, perché al solo nominarlo venivano prese da un riso inarrestabile, sovrumano. Ma infine decisero il suo ritorno al sole: fu visto liberarsi dal fuoco sterminatore della bella montagna e scendere verso la città lieve, circondato dalla luce.
Il racconto è denso di riferimenti filosofici. Innanzitutto la relazione musica-filosofia la si ritrova in moltissimi passaggi platonici. Ma il canto ha (e avrà sempre) a che fare con i grandi temi dell’esistenza: l’amore e la morte. Come nel sublime Liebestod (morte d’amore), la drammatica aria finale che chiude Tristan und Isolde di Wagner. E si deve ritornare per forza, ancora una volta, al Platone del seducente Simposio, dove, con l’ausilio del vino, viene composta ed eseguita una sinfonia mirabile sul tema dell’eros – Leonard Bernstein si spingerà a tradurre in musica il capolavoro platonico nella Serenata sul Simposio di Platone, scrivendo, nel 1954, per il violinista Isaac Stern, una partitura per archi, violino e percussioni, in cinque movimenti, ognuno incentrato su un diverso carattere dell’amore, non distaccandosi dal testo di Platone – ; o dovremo ritornare a quello del Fedone, in cui tra il motivo della filosofia come “apparecchio di morte” e l’immagine della “seconda navigazione”, la pratica più adeguata per arrivare alla verità, balena la mesta nostalgia per la mancanza del maestro, Socrate, condannato a morte, da una maggioranza democratica, per empietà e corruzione di coscienze giovanili. Del filosofo ateniese, nel Fedone, sono raccontate gli ultimi, solenni istanti di una vita degnamente vissuta.
La tristezza ci porta però difilati all’angoscia, la vera essenza della vita degli uomini. E, ancora, allo stupore dove si ritrova la radice stessa della filosofia. E, infine, Pulcinella che ritorna alla luce dal ventre del Vesuvio – il fuoco rimanda ad Eraclito – è lo schiavo che, dall’oscurità dell’antro, conquista la libertà grazie all’illuminazione della verità. Ma il filosofo suscita ilarità e il riso. E il riso serve per esorcizzare l’assenza e la morte. C’è un filo rosso ben solido tra Pulcinella, maschera infera, che conduce le anime nel mondo dei morti (come, simbolicamente, nell’antico Carnevale campano con la rappresentazione dei Mesi dell’anno) e Totò. Che la morte ha sempre tentato di tenere lontano, rappresentandola spesso, nei suoi film, per prendersi gioco di essa. E, in fondo, cosa significa filosofare se non, prima d’ogni cosa, prendersi gioco della filosofia? Filosofia, ovvero amore della sapienza. Ma Eros, così come racconta a Socrate la sacerdotessa Diotima, è un ladruncolo e un inciarmatore, figlio com’è di Penia (la povertà, la mancanza) e Poros (Ingegno, espediente).
È amore un ladroncello,
Un serpentello è amor;
Ei toglie e dà la pace,
Come gli piace, ai cor.
E’ Dorabella a cantare quest’aria bellissima, in Così fan tutte, una delle opere della trilogia italiana di Mozart. E dove l’ambienta, quest’opera, Lorenzo Da Ponte, il librettista di fiducia del divino salisburghese? Ma a Napoli, naturalmente.
Felice anno scolastico a tutte le studentesse e a tutti gli studenti, con la filosofia.