di Giancristiano Desiderio
Il “governo del cambiamento” è il governo della continuità italiana. Con l’aggravante del maggior peso dei tradizionali vizi italici. Il governo del cambiamento è il governo del gattopardo perché il peggior trasformismo non è quello politico, che è del tutto indigeno, ma quello intellettuale e ideale che invoca il nuovo per restaurare il vecchio. La cosiddetta Terza repubblica è partitocratica come la Prima, peggio della Prima: c’è il peso prevalente dei partiti – o “movimenti”, è lo stesso – sulle istituzioni, dei sindacati sulle imprese e sui disoccupati, dei giustizialisti sulla giustizia. La democrazia diretta è, come si sapeva, una fola, un concetto che si dice ma non si pensa e in concreto è la democrazia diretta da qualcuno: da Salvini per inventare emergenze e dire così di averle risolte; da Di Maio per sfornare provvedimenti statalisti, da Conte che non solo è dimezzato ma è un conte in mezzo ai suoni. Questa parodia altro non è che il declino della democrazia rappresentativa che non essendo più sostenuta e irrobustita da buone forze parlamentari vede il senso del limite, con cui si equilibrano i diversi e contrastanti interessi, soccombere a beneficio di corporazioni, burocrazie, bande.
Il futuro non riserva nulla di buono e di nuovo perché il futuro è oggi. Il metodo di ciò che resta dell’attività politica è quello dell’accordo tra corpi e burocrazie in modo tale che ogni corpo (sindacato, movimento, partito, associazione) possa agire senza limiti nel proprio settore. Questo metodo, altamente illiberale, lo hanno chiamato “contratto per il governo del cambiamento” e dei cittadini ma chi ne pagherà il prezzo più alto sono i cittadini. I quali, in verità, invece di essere sovrani nell’unico modo possibile, ossia individualmente, hanno scelto la scorciatoia del sovranismo con il risultato della perdita della sovranità e la conquista della sudditanza. Complimenti.
Era già tutto scritto nella tradizione italiana dell’individualismo statalista con cui gli italiani, tra commedia e tragedia, si organizzano per la conquista dello Stato per sfruttarlo in modo corporativo. Il governo della continuità corporativa è il compimento di un destino. Il danno certo è l’assenza di limite alla propria azione prepotente che ogni corporazione esige. Si prenda il caso del provvedimento di Di Maio: non ha copertura finanziaria ed è in palese conflitto con la Costituzione (articolo 81, quello scritto, nella sua versione originaria, da Einaudi di suo pugno) ma lui esige che sia licenziato quanto prima. In nome di cosa? Del “bene comune”, del “cambiamento”, del “bene dei cittadini” ossia della fuffa retorica e della propaganda perché l’unico vero bene comune è la limitazione del potere. Non ce n’è altro.
L’unico bene comune è il limite che la cultura politica – che discende dalla cultura tout-court – deve sempre far rispettare alle forze politiche e alle forze sociali che in quanto tali si esprimono per volontà di potenza. Purtroppo, accade l’esatto contrario: non solo, come si è visto, nell’ambito delle politiche per il lavoro, ma in ogni altro settore, ad esempio, l’istruzione, la sicurezza, la previdenza e, naturalmente, la giustizia in cui è venuta meno da molto tempo la distinzione e separazione tra (presunti) reati e (vere) garanzie e in nome di una giustizia giustiziera si fa strame di libertà, proprietà, esistenze. La giustizia è il nervo più scoperto della nostra scassatissima convivenza civile perché è da lì che promana la risibile divisione del mondo in buoni e cattivi. La cultura politica egemone impone il giochetto delle contrapposizioni del popolo (buono) contro l’èlite (cattiva), dei cittadini (buoni) contro i politici (cattivi) e questo giochetto è il cascame populista della vecchia lotta di classe che raccontava la favola della contrapposizione tra la borghesia e gli operai in cui la prima avrebbe unicamente lavorato contro la emancipazione del proletariato. I rivoluzionari sono i più fedeli alleati dei reazionari.
Le contrapposizioni artificiose sono calcolate e strumentali semplificazioni che un tempo erano la specialità dell’Intellettuale organico o collettivo che le gestiva a beneficio del Partito e oggi sono il frutto della cosiddetta comunicazione in cui i proletari di ieri si sono imborghesiti materialmente ma sono regrediti intellettualmente e avendo smarrito del tutto la differenza tra la realtà e la propaganda, la sensatezza e la stupidità fanno un gioco scemo in cui lavorano per il loro carnefice, fino al punto che ormai è lecito pensare che è la vittima il vero carnefice. Quando la vittima chiederà giustizia e sarà giustiziata, invocherà lavoro e sarà tacitata, farà domanda di pensionamento e se la vedrà tagliata, griderà al lupo e sarà ignorata, allora, sarà troppo tardi, troppo tardi anche per capire che l’unica cosa che conta nella vita e nella politica non è chi governa ma che chi governa non governi senza limiti.