di Giancristiano Desiderio
Perché Paolo Di Donato è ancora in stato di arresto? L’ex “re dei profughi” è ormai senza regno ed è impossibile che possa ripetere (l’eventuale) reato, tuttavia è ancora agli arresti domiciliari. E’ passato già un bel po’ di tempo da quando è stato arrestato con molto clamore degno di miglior causa e sono accadute un bel po’ di cose che avrebbero dovuto indurre il magistrato a revocare l’arresto: ci sono stati gli interrogatori che hanno chiarito la posizione, non ha alcun incarico in Maleventum, gli stessi centri di accoglienza sono stati chiusi, in prefettura c’è un nuovo prefetto, il sottosegretario Carlo Sibilia ha detto che il Sannio non dovrà più accogliere altri immigrati. Si tratta di fatti decisivi che rendono inutile la detenzione di Paolo Di Donato (come, del resto, quella degli altri indagati) eppure non viene liberato. Perché?
In Italia, purtroppo, si fa un uso troppo disinvolto della custodia cautelare e la stessa misteriosa opinione pubblica parteggia per la sicurezza più che per la libertà, fatta eccezione per il caso in cui la sicurezza – per il più kafkiano dei provvedimenti giudiziari – venga a bussare alla porta di uno dei tanti pubblici opinionisti del nostro tempo. Allora si capisce che privare qualcuno della libertà è un atto estremo che va fatto, prima di un processo, solo in casi di provata necessità. Ma a quel punto è troppo tardi.
L’ho già scritto ma è bene ripeterlo. Questa è una brutta storia non per i fatti accaduti ma per come i fatti sono raccontati. Ciò che manca è la coscienza dei fatti o, se volete, tra la coscienza e i fatti ad essere sporca è la coscienza. I centri di accoglienza di Maleventum li stanno chiudendo uno dopo l’altro per vari motivi con un solo risultato: la disperazione dei rifugiati che piangono e si addolorano. Evidentemente, non stavano così male come è stato neanche raccontato ma semplicemente riferito. C’è la volontà di fare di Paolo Di Donato un capro espiatorio. Un’accusa morale, prima che giudiziaria, risibile. Sì, perché è bene rinfrescare la memoria agli smemorati: per oltre venti anni il Re ha avuto rapporti con procure, prefetture, enti, istituzioni partecipando ed eseguendo gare d’appalto. Tuttavia, nei confronti di Paolo Di Donato – che lo stesso Stato ha utilizzato per far fronte ad emergenze sociali – non è stato mai applicato alcun provvedimento di prevenzione e, soprattutto, il Re ha lavorato in quei delicati settori perché pienamente legittimato dal momento che non ha mai ricevuto alcuna interdittiva antimafia. Non solo.
Dalle intercettazioni – perché l’inchiesta si basa soprattutto sulle intercettazioni, con tutti i limiti del caso – emergono rapporti diretti tra il Re e il prefetto, tra il Re e gli alti funzionari dello Stato, tra il Re e le forze dell’ordine, con frequentazioni anche extralavorative che l’Orecchio della procura non ha reputato di rilevanza penale. Questa è la storia personale e sociale di Paolo Di Donato. Allora, come è possibile sostenere che sia socialmente pericoloso tanto da tenerlo in stato di arresto?
Ma, chiarita questa condizione quasi irreale eppure, purtroppo, realissima, c’era poi davvero bisogno di ricorrere all’arresto? L’ipotesi originaria della Procura di associazione a delinquere è stata disattesa dallo stesso Gip mentre si è presa in considerazione la figura di Paolo Di Donato come quella di una sorta di deus ex machina capace di gestire una fitta rete di relazioni con persone delle istituzioni che le stesse istituzioni non avrebbero saputo gestire. Praticamente, un drago. Se, però, si va a guardare da vicino, come diceva Andreotti, la fitta rete di relazioni si vedrà che è ben poca cosa. Infatti, questo reticolato diabolico sarebbe costituito da Felice Panzone, che è una figura secondaria della prefettura beneventana, da Lucio Di Maio, che è un funzionario di pubblica sicurezza della questura sannita, i quali al momento degli arresti sono da tempo stati trasferiti ad Avellino e Napoli. A questi si deve aggiungere il vice brigadiere dei carabinieri, Salvatore Ruta, che è in aspettativa o sospensione dal servizio da oltre diciotto mesi. Questa banda di scarpa sciolta sarebbe una mostruosa macchina da guerra capace di fregare lo Stato?
Prendete questa storia e giratela e rigiratela come volete e alla fine capirete ciò che era chiaro dal principio: il re dei profughi è un capro espiatorio. Non voglio addentrarmi nelle questioni giudiziarie – che riguardano fatti del 2015 e 2016 – perché rischierei solo di annoiare il lettore o, forse, di stupirlo, chissà. Mi interessa solo l’aspetto delle garanzie: Paolo Di Donato sta pagando la stessa incapacità dello Stato di gestire quella che fu definita “emergenza immigrati” e sta pagando per tutti. Sì, proprio così, per tutti.
Dategli il suo giudice! Ci deve essere da qualche parte!