di Giancristiano Desiderio
I piccoli calciatori finiti nella bocca della Grotta di Tham Luang, in Thailandia, sono l’incarnazione della natura umana che Platone racconta con il mito della dimora sotterranea simile ad una caverna – kataghèio oikései spelaiòdei. Vi sembra il caso che dinanzi ad una simile storia si possa fare filosofia? Quei ragazzini sono chiusi in fondo alla Terra dal 23 giugno. Sono entrati avventurosamente in quella cavità che poi, dopo il loro viaggio alla fine del giorno, si è velocemente riempita d’acqua per la pioggia alluvionale. Sono stati ritrovati da sub inglesi, John Volanthen e Richard Stanton, dopo nove lunghissimi giorni e dopo nove lunghissime notti mentre per loro, prigionieri dell’oscurità e delle rare ombre, non c’era più cognizione della luce. Poi, ad un tratto, un lampo, un chiarore, una luce: “Eccoli, eccoci”. Vivi, sono tutti vivi, smagriti e deboli, ma vivi. Ora devono risalire la cavità che ha, però, ben tre invasi d’acqua, fango e melma. Non sarà facile il viaggio di ritorno verso la luce. Dovranno nascere una seconda volta.
Trentasette anni fa l’Italia visse la tragedia di Vermicino. Il piccolo Alfredino Rampi finì in un pozzo artesiano e nonostante gli sforzi di ogni tipo – anche il ricorso a nani, fantini, contorsionisti, tutto frutto della disperazione e dell’improvvisazione – non si riuscì a salvare la vita del bambino di sei anni che correva in un prato come un burattino in carne e ossa e finì nella pancia della Terra. Dopo sessanta ore di agonia, Alfredino precipitò per altri trenta bui metri in fondo ai nostri cuori. Sandro Pertini, come se fosse stato suo nonno, lo chiamava inutilmente. Angelo Licheri, contorsionista, si calò nel pozzo, lo prese, ci parlò, lo accarezzò ma non riuscì a portarlo in salvo, alla luce del giorno, del sole e della luna: l’ex tipografo sardo dal cuore generoso e coraggioso non superò mai il fallimento del suo viaggio nella Caverna. Fu una tragedia per tutti noi perché tutti noi, quasi trenta milioni di italiani, eravamo davanti alla televisione la sera del 12 giugno 1981 a cercare con il nostro stesso cuore spaventato di trarre Alfredino in salvo, dall’ombra alla luce. Quella sera, si dirà in seguito, nascerà un’Italia diversa. Chissà. Tutti, di certo, lottammo con i nostri stessi desideri per scacciare le ombre e vivere alla luce, tutti conoscemmo in vita la forza dell’oscurità che vive sotto i nostri piedi.
Non si può fare filosofia, ma la Caverna di Platone non è filosofia. E’ la natura umana, la sua condizione, la nostra. Siamo immersi nell’ombra e risaliamo verso la luce sapendo che la luce totale ci acceca come Tiresia o ci brucia le ali come Icaro e che non lasceremo mai per sempre e interamente il mondo delle tenebre nel quale nasciamo venendo alla luce. Gli uomini possono preferire le tenebre, Giovanni ne è certo. Non si tratta né di teoria né di ontologia ma di condizione: noi siamo questa cosa qua che è oscura e si schiarisce senza abbandonare l’ombra. Nel celeberrimo mito platonico, uno dei prigionieri si libera e risale verso la luce ma dopo aver visto il mondo, il sole e l’altre stelle ritorna nella Caverna. Come Angelo Licheri. Come John Volanthen e Richard Stanton. E come altri che verranno e come tutti noi che sappiamo, anche senza esser-ci stati, cosa significa stare in fondo a una Grotta e ogni giorno cerchiamo di rivedere la luce conoscendo il valore e il pericolo dell’ombra.
Platone sa che la cosa più importante è calarsi nelle tenebre. Che il senso della vita, se mi concedete questa frase senza senso, è scendere nelle ombre perché l’umanità è prigioniera di forze oscure che sono allo stesso tempo la sua dannazione e la sua salvezza. Non può vivere, l’umanità, né senza loro né con loro. Come la Lesbia di Catullo, odio ed amo. Come lo faccia, forse chiedi. Non so, ma sento che accade e mi tormento.
Sono partiti un po’ da tutto il mondo per calarsi nelle tenebre di Tham Luang ed è come se tutta l’umanità, almeno quella cosciente, fosse lì pronta a scendere nella Caverna, nel mondo delle ombre, del laborioso mondo delle Madri, per andare incontro a se stessa che è là in fondo, come ragazzini tra gli undici e i sedici anni che vogliono rinascere per giocare a pallone in superficie.