di Amerigo Ciervo
“Non c’è nulla di più alto del pensiero. Se, dunque, l’Intelligenza divina è la cosa più alta non può che pensare se stessa. E il suo pensiero è dunque pensiero di pensiero.” La frase, la ritroviamo nella Metafisica (1074b 15) di Aristotele, il filosofo greco che, in queste ultime settimane, è passato spesso su giornali e siti per il fatto che gli studenti del classico si siano dovuti confrontare, per la seconda prova dell’esame di stato, con una sua celebre riflessione sull’amicizia, un passo che è, invece, nell’Etica nicomachea. Ovviamente il testo, come molti testi, non era per niente semplice, per una serie di motivazioni che qui è inutile affrontare. In realtà, è proprio il passaggio della Metafisica ad interessarci di più, perché se – come argomenta Aristotele – l’attività più alta, per l’Intelligenza divina, è il pensare, per forza di cose essa dovrebbe esserlo anche per noi. Oltre che della civiltà classica, siamo figli di quella giudaico-cristiana. Per la Bibbia, infatti, gli uomini sarebbero stati creati a immagine e somiglianza di Jahvè. (Genesi, 1,26)
Dunque, tra tutte le attività degli uomini, – di tutti gli uomini, non solo di quelli che scelgono di filosofare in senso professionale o che vengono riconosciuti, dai loro simili, come “filosofi” – il pensiero è la più alta. Come tale, è un’attività che richiede applicazione rigorosa e profonda responsabilità, sia sul piano teoretico che su quello pratico. Mi guardo intorno e, meravigliandomi per la “straziante bellezza del creato” (Totò-Iago in Che cosa sono le nuove? di Pierpaolo Pasolini) mi pongo delle domande. Fin dove posso arrivare nella conoscenza del mondo? Sarà mai possibile trovare una qualche relazione “finalistica” tra me e il creato? E, ancora, cosa dovrò fare per vivere una vita giusta e felice? Conoscere il mondo e decidere come comportarsi nel mondo, individualmente e nel rapporto con gli altri: il “cosiddetto” pensiero serve essenzialmente a rispondere a tali questioni che non potranno essere mai rimosse dalla coscienza di ognuno di noi. E’ pure vero, tuttavia, che a tale pratica, da più di duemila e cinquecento anni, alcuni nostri simili hanno dedicato la loro esistenza, lasciandoci in eredità un patrimonio di idee, di concetti, insomma, un pensiero, con cui fare i conti. Socrate è stato uno di questi. Un soggetto complicato. Amato dai suoi discepoli. Odiato dal potere della polis. Un tafano fastidioso e, spesso, insopportabile, a pizzicare il corpo di un’elegante e nobile cavalla che avrebbe preferito dormire. Critico, addirittura insolente quando, difendendosi dalle accuse, chiede all’assemblea non solo di essere assolto, ma di vedersi riconosciuto il diritto di essere ospitato, a spese dello stato, nel Pritaneo (ovvero nel luogo simbolicamente più importante della città), per la funzione che ha svolto: l’essere stato la coscienza critica della polis. A suo modo, un sostenitore del finanziamento pubblico della politica. In realtà, di tali uomini nessuna società potrà mai fare a meno. Così come non si potrà fare a meno di sapienti e creativi costruttori di case, di uomini e donne che sappiano fare, come accade da millenni, il pane da spezzare con il proprio vicino, avendone condiviso il lievito, di uomini e donne che sappiano curare i loro simili ammalati e di uomini e di donne che, rinvenendo metafore e utilizzando misure, ne sappiano raccontare la condizione esistenziale, magari insieme a chi, avendo appreso come scandire il ritmo, battendo una pietra, o come soffiare in una pelle di capra, quel medesimo racconto lo affida, da sempre, alla miracolosa e seducente guerra che il suono combatte con il silenzio.
Per questo non si deve avere timore di sperimentare la solitudine del pensiero che, proprio perché, per la sua natura più intima, si arrovella con il fuoco del dubbio, non raramente si espone alla solitudine del mondo. Non si abbia timore di restare in pochi, in minoranza, a sostenere i concetti che, con rigore, sono dedotti attraverso riflessioni accurate e svolte nel rispetto delle categorie che i grandi maestri hanno, lungo i secoli, individuato e fissato.
La storia ci ricorda e ci spiega come l’Europa, in cui noi ci muoviamo, di questi tempi con difficoltà sempre crescenti, sia la figlia nata dal matrimonio, difficile e complicato, tra la civiltà latina e quella germanica. Un matrimonio benedetto nel nome di una nuova visione del sacro che individua l’amore di Dio nell’amore per il prossimo. Non furono certo gli ebrei o gli eretici la causa della grande peste della metà del XIV secolo, così come, di nuovo, gli ebrei non costituivano nessun problema nella Germania degli anni Trenta. E tuttavia, in quegli anni s’innalzarono roghi e, nel secolo breve, si aprirono lager e gulag. Non in Africa, ma nella civilissima Europa. E’ la fuga dal pensiero a generare irrazionalismo e paure. Oggi sembra, dunque, necessario recuperare il pensiero. Che è l’attività “divina” che si ritrova nella mente e nel cuore degli uomini. Solo con il pensiero, partendo dall’homo homini lupus (l’uomo lupo per l’altro uomo), potremo conquistare l’homo homini deus (l’uomo dio per l’altro uomo). E messa da parte tale attività, anche la politica, la scienza più alta, inizia paurosamente a sbandare. In conclusione, per non citare solo filosofi, l’essenza della politica forse la ritroveremo più facilmente in una bellissima canzone di Lennon-McCartney, pubblicata nel 1968, giusto cinquant’anni fa, nel Doppio bianco. La canzone è Blackbird. Il testo l’ho tradotto in lingua napoletana. Così capiremo meglio.
Canta ‘no mièrulo dint’ ‘o scuro
“Aràpe ‘e scelle e ‘mpàrate a volà.
Pe’ tutt’‘a vita
Hai aspettato chest’ora ‘e libertà!”
Canta ‘no mièrulo dint’ o scuro
“Aràpe l’uocchie e ‘mpàrate a guardà.
Pa’ tutt’a ‘vita
Hai aspettato chest’ora ‘e libertà!”
Vola, auciello, vola ‘ncielo
Guarda che luce dint’ ‘a notte scura!
La politica deve, di nuovo, imparare a guardare, cioè deve imparare a capire il mondo e, aperte le ali, imparare a volare nel cielo più alto. Solo così, forse, balena la speranza di poter ricominciare a rivedere la luce, al di là dell’angosciante oscurità della notte nera.