di Guido Bianchini
Cerco di intervenire poco sui fatti locali per evitare di impegolarmi nelle diatribe di provincia, di ogni ordine e grado, ma ci sono cause che chiamano in causa per dovere di testimonianza e gratitudine. Ho letto da quotidiani locali del rischio che l’Istituto De La Salle , liceo paritario della nostra città, rischia di chiudere, per le difficoltà economiche della Curia che sembrerebbe voler destinare le sue risorse solo alla scuola per l’infanzia, decretando così la fine di un esperienza formativa che, abbracciando i diversi gradi d’istruzione, aveva e spero continuerà ad avere nel liceo il punto d’arrivo, o meglio il trampolino di lancio verso gli studi universitari. So bene quanto la difficile situazione economica attuale condizioni inevitabilmente determinate scelte e si ripercuota in ogni ambito, per cui sarà difficile attrarre anche capitali privati, come auspicato da Mons. Accrocca, ma tale consapevolezza non mi esime dallo slancio di un appello ideale. Parlo, non da intellettuale o da docente, etichette necessarie che cerco di dribblare costantemente, ma da semplice ex allievo che ha giovato dei frutti di tale progetto educativo. Con estrema franchezza devo ammettere che la scelta di iscrivermi al De la Salle fu dei miei genitori, forse più preoccupati di garantirmi una continuità didattica, spesso frammentata nella scuola pubblica tra scioperi, occupazioni , cortei e ponti vari, che del mio desiderio di auto-determinazione che mi avrebbe probabilmente portato altrove. All’inizio l’ ho vissuta come un’imposizione, guidato dal pregiudizio elitario e classista che il pubblico ha sempre nei confronti del privato, cui si aggiungeva la nomea di “scuola dei preti” che faceva supporre un indottrinamento dogmatico, degno di potenziali fanatici religiosi. Così non è mai stato ,perché quella scuola che imparai a sentire presto “mia”, è stata un’esperienza di liberta e di graduale innamoramento del sapere che sono da sempre gli antidoti e gli anticorpi ad ogni fanatismo, religioso e non. Il merito è da ascriversi a docenti che amavano la materia d’insegnamento e cercavano di farne capire l’utilità per la vita e per il futuro, ma anche a chi sapeva metterli insieme, andando a pescare nelle già sterminate liste ministeriali, supplenti precari motivati e preparati in attesa di immissione in ruolo, che in un quella strana isola felice scoprivano di poter diventare veri e propri maestri, con qualche eccezione poco degna che pur era utile a far capire a noi studenti, che nella vita bisogna far buon viso a cattivo gioco, riconoscere l’incompetenza per imparare a difendersene. Forse è inadeguata persino l’immagine idealizzata dell’isola felice, perché l’isola De La Salle è stata sempre viva e vera, anche teatro di lotte per le idee “rivoluzionarie” e controtendenza tipiche degli adolescenti , che non di rado si staccavano dalla linea educativa dell’istituto e divenivano oggetto di una dialettica partecipata, di una mediazione costante tra i vari attori della nostra comunità scolastica. Le “lotte in classe” , spesso sbeffeggiate da chi dall’esterno ci accusava di essere figli di papà, compratori di diplomi, in nome delle filastrocche e degli slogan da stadio sulle presunte lotte di classe, cui rispondevamo armandoci di tastiere con il nostro piccolo giornale “Eureka”( grazie al quale molti di noi hanno scoperto la libertà di esprimersi con la scrittura) ci insegnavano l’arte della mediazione e del compromesso che nella vita, soprattutto da adulti, sono molto più proficui del ribellismo ad oltranza. Potrei continuare a lungo, ma non intendo fare un campionario aneddotico di ciò che per me ha significato la mia scuola (valga soltanto il fatto che alla presentazione beneventana del mio primo libro di filosofia ho voluto la presenza dell’attuale preside come simbolo di continuità di una passione nata proprio in quelle aule), ma vorrei far riflettere su cosa si andrebbe a perdere. Nel tempo in cui ad essere affollate sembrano essere sempre più quelle deputate all’esercizio fisico, non si può rinunciare ad una palestra del pensiero che costruisce quotidianamente futuro, tracciando vie, permettendo di scoprire attitudini, inclinazioni e vocazioni professionali alle generazioni a venire che potrebbero essere risorsa per una provincia e un Paese sempre più bisognoso di intelligenze. Prima di pensare a possibili politiche culturali bisognerebbe creare interesse per la cultura nei fruitori del domani e solo la scuola può farlo, o almeno tentarci, in maniera sistematica. A maggior ragione se cattolica, perché cattolico, stando al senso originario squisitamente greco, è sinonimo di universale e di tale universalità, non eguagliabile alla totalità, si avverte oggi un bisogni vitale in un mondo segnato sempre più dalla frammentazione e dal particolarismo. Il De La Salle nato, come scuola di formazione per futuri chierici e religiosi in genere si è trasformato negli anni, assecondando la sua vocazione cattolica, aprendosi al mondo laico, alla componente femminile e alle nuove sfide dell’educazione cosmopolita globale che il nostro tempo, pur tra molte contraddizioni, richiede. Chiuderlo significherebbe snaturare e sconfessare questa storia “altra” di tradizione e innovazione, ammettere una sconfitta e un fallimento di un ideale, sarebbe come tollerare, con indifferenza, il prosciugarsi di una fonte di sapere, che per quanto piccola ed economicamente sterile sia divenuta, ha dato da bere a tanti ragazzi assetati di conoscenza che ancor esistono e resistono a queste latitudini. Ragazzi che meritano, come me e tanti altri a suo tempo, un’opportunità di crescere, un’occasione per non andare ad ingrossare, sin dall’adolescenza, le fila di una generazione sempre più privata di futuro perché costretta andare avanti in un panorama culturale e umano desolato e desolante, in cui i segni di un deserto crescente sono proprio il decadimento, se non l’annichilimento, di piccole realtà fruttuose e virtuose, ritenute superflue, dalle disumane logiche di mercato, ma polmoni di un umanesimo, perché fucine di umanità futura.