di Giancristiano Desiderio
Mentre scrivevo sulla inesistenza dell’olimpicità di Croce, che aveva invece una natura vesuviana – dentro il fuoco e sopra la neve – mi è giunto il libro di Paolo Bonetti Presenza di Croce (Aras edizioni). E’ un testo che raccoglie saggi sparsi qua e là negli ultimi quindici anni ma che sono legati da una nota comune che è quella “affinità elettiva” che lega l’autore a colui che considera “il più grande intellettuale italiano del Novecento”. Ma su cosa si fonda questa affinità del cuore e della mente? Sulla consapevolezza che il cuore nel cuore del pensiero di Benedetto Croce è da ricercarsi nella logica come scoperta di alta etica con cui il mondo è redento da quel male vitale che rende la nostra vita un circolo tragico nel quale dobbiamo imparare a stare. Paolo Bonetti sa sia sul piano filologico sia sul piano filosofico che la impassibilità di Croce è una favola e la “calma” del filosofo fu una conquista che aveva in sé il costante e prezioso nutrimento dell’angoscia.
Lo stesso Croce giunto nel mezzo del cammino della sua e della nostra vita o poco oltre poteva dire a ben ragione che la leggenda della sua impassibilità era, appunto, né più né meno che una leggenda. Ma, si sa, fra la leggenda e la verità – come dice un vecchio cowboy in un film di John Ford – è sempre la leggenda a farsi preferire. Così ai posteri è passata la leggenda della impassibilità, della imperturbabilità, della olimpicità di Benedetto Croce che, invece, non è mai esistita se non nei sogni o negli alibi dei mestieranti di cose filosofiche a beneficio del Partito e della carriera. Come ebbe a dire Gianfranco Contini nel suo celebre scritto sul filosofo e sull’uomo, Croce è “un trionfatore e dunque tributario delle Madri, dell’irrazionale”. Il che significa che il filosofo per diventare se stesso e conquistare una calma lavorata, per raggiungere una “precaria serenità” dovette faticare, lottare con l’angoscia, la disperazione, la disgregazione e quella forza ambigua della vita e della vitalità che, forse, è il filo conduttore della sua stessa opera.
Perché tutto ciò che fece Croce, dal pensiero all’azione, fu il frutto di una conquista personale, il superamento di un dramma, il lavoro di una vita che erano, sono e saranno gli unici modi in cui si impara qualcosa e si fa qualcosa di sodo e ben fatto al mondo. E la filosofia è parte attiva di questo mondo e non vive di certo in un monastero o, peggio, in un’aula e il filosofo non è in cattedra ma nel mezzo della battaglia ma si sforza con tutto se stesso di non trasformare il suo pensiero in un’oratoria in nome della verità, dell’umanità, della giustizia che è il modo migliore, cioè peggiore, per tradire il suo compito. In fondo, la filosofia nel suo senso più stretto ossia di atto del pensiero è sempre “un tentativo di serenità nel mezzo della tempesta”, secondo la bella espressione che Ortega dedicò al suo La ribellione delle masse: un tentativo che costa fatica perché non può non essere fatto nel mezzo della tempesta sia della vita morale in cui le passioni bruciano e azzannano sia della stessa vita della mente in cui gli errori e le falsità e le maschere confondono il cuore e il giudizio.
L’azione condotta in nome della verità o della giustizia o dell’umanità è il modo più sicuro per tradire l’intelletto il cui scopo, invece, è quello di essere un lavacro che ci depura momentaneamente l’anima e ci consegna alla libertà del campo di battaglia con la nostra sofferente singolare umanità.
Giunto, così, nel 1917, nei giorni dopo Caporetto – quando la sorte d’Italia non solo vacillava ma si sarebbe decisa per il futuro, per secoli, forse per sempre – Croce poté scrivere in una lettera a Girolamo Vitelli a chiare lettere: “La leggenda della mia impassibilità è una leggenda. Io procuro di non perder la testa: ecco tutto. E nondimeno ciò mi è costato e mi costa sforzi dolorosi”.
Chi ritiene che Croce è, fu impassibile, distaccato, lontano, superiore, olimpico semplicemente non lo conosce e, dunque, a un tale lettore o studioso non si ha nulla da dire se non leggi, apprendi, fatica e poi ne riparliamo. Nella sua vita Croce disperò e i momenti di angoscia, di scoramento, di nausea che lo portarono persino ad auspicare per sé la morte furono tanti e ritornanti. Ma cosa fare quando tutto crolla e svanisce e viene portato via dal vento e dal tempo, dall’ignoranza e dal male se non resistere ancora una volta e lavorare, se se ne ha pur la forza, secondo la propria linea, il proprio dovere, il proprio demone? Anche lo stoico non è stoico ma si è educato per esserlo e Croce, stoicismo a parte, si è educato per tutta la vita con la consapevolezza che non c’è vita senza lotta.
Se si osserva, come il lettore può fare, la vita di Croce si vedrà che il critico costruisce il critico, che il filosofo costruisce il filosofo, che l’uomo costruisce l’uomo superando se stesso affrontando i colpi della vita, avversando le avversità, contrastando l’inquietudine, risolvendo i problemi. Giacché la fissa del superamento – che fu dei giovani che mal compresero Croce – è una fissa fessa perché noi non possiamo superare un bel niente se non noi stessi e non possiamo comprendere un bel nulla se non noi stessi: ogni sforzo che facciamo, se lo facciamo, di intelletto e di volontà, è uno sforzo che trasforma la nostra stessa sofferenza in uno sgabello per salirci sopra e superarci. Ma, appunto, superare noi, non gli altri che è quasi come se fossero fuori gara fino a quando non entrano nel circolo della nostra stessa esperienza del mondo. Così fu per Croce: un continuo superamento di sé fatto non una volta per sempre ma sempre per una volta perché il pensiero e l’azione sono universali solo in quanto sono particolari.
La vita del giovane Benedetto è letteralmente terremotata dal maremoto di Casamicciola ma con la necessità di superare il terremoto che è all’interno della vita stessa, come della storia, Croce si misurerà per tutti i giorni della sua esistenza. E’ da questo sentimento della precarietà della vita, così forte in Croce, che nasce il bisogno di concepire la vita come un’opera che proprio della ambiguità del vitale fa la sua “materia prima” perché è lì, nel vitale, che c’è allo stesso tempo il pericolo e la forza per superarlo. Il vitale è la “malattia romantica” contro la quale, a volte, o si lotta invano o ci si abbandona con compiacimento consegnandosi agli irrazionalismi e ai demòni. Tanta filosofia del Novecento, in fondo, ha amoreggiato con il negativo – con la sua potenza, con la sua seduzione e suggestione, con la sua autonomia – mentre Croce pur avvertendo le inquietudini, le angosce, le disperazioni, le debolezze le ha fronteggiate nell’unico modo possibile: non isolando il bene dal male ma facendo del male la forza interna del bene che, per la natura storicista del suo pensiero, non è detto che non possa prevalere sul bene, come a volte nei tempi di peggiore decadenza l’Anticristo che ci portiamo in petto prevale su Cristo. La storia in Croce ha un volto tragico e l’uomo – l’uomo, non solo il filosofo – per starci dentro al meglio non ha di meglio da fare che maturare la consapevolezza del tragico e vivere secondo l’etica del lavoro o dell’operosità con cui si può dare forma al nostro stesso dolore.
Tutto sommato è facile essere filosofi della crisi – se ne può fare tranquillamente una materia accademica, ci si può mettere in poltrona e fare della crisi una dispensa universitaria -; altra cosa è essere filosofi o semplicemente uomini o se stessi nella crisi, nella malattia, nella tempesta, nella decadenza. Il pensiero, l’azione e la vita di Benedetto Croce si nutrono della crisi, della malattia, della decadenza, dell’angoscia e sono il tentativo di rispondere alle forze disgregatrici dell’ambiguità della vita e della storia con la consapevolezza che la stessa “figura” dell’autocoscienza altro non è che la comprensione della tempesta nella quale sempre siamo dal principio alla fine della nostra giornata. L’unico modo per rispondere alla malattia dello spirito non è quella di trasformarla in una patologia ma di tener fede alla unione-distinzione dell’essere e del pensiero senza la quale la nostra vita e la storia cadono nel fatalismo e si arrendono alle forze oscure che ci agitano il petto ora nutrendolo ora ingannandolo. “Io procuro di non perder la testa: ecco tutto”. E sì, che la testa si perde facilmente perché il riparo alla tempesta non esiste in una verità superiore alla vita in cui il “primato del fare” non riguarda solo l’economia, la politica e la morale ma anche lo stesso atto del pensiero che della tempesta è una sorta di speculo o di spettacolo o di ricucitura dei fatti accaduti che nel nostro dramma mentale sanguinano come sanguina una ferita che va medicata e ricucita. Con una differenza, rispetto alla metafora, che nell’atto del pensiero la ricucitura è momentanea perché lo scopo del giudizio è quello di riconsegnarci alla tempesta delle fortune del mondo che faranno ancora una volta sanguinare le ferite.
Una volta Pantaleo Carabellese, in polemica con Croce, si era posto la domanda di cosa fosse la filosofia e Croce gli rispose fuori dalle definizioni di scuola che lasciano il tempo che neanche trovano così: “Ma crede egli davvero che si possa aver dato i migliori momenti della propria vita alle meditazione, ed esser rimasto affatto immune dalle ansie, dalle angosce, dai rapimenti, dalle delusioni che accompagnano la ricerca del vero? Crede sul serio che non sia stato o non sia un po’ anch’io, a modo mio, “vittima di Dio”, per adoperare la espressione che a lei piace? Crede che io non abbia provato o non provi i tormenti, che sono inseparabili dalla vita del pensiero? Vero è che ho acquistato coscienza che è necessario soffrire questi tormenti, non per offrirsi vittima a Dio, ma per comprendere meglio le cose del mondo”. Capire il mondo e crearlo, questa la vita della nostra collaborazione.