Le celebrazioni della liberazione dall’oppressione nazifascista, senza che se ne voglia oltraggiare la memoria e il valore simbolico di rinnovamento dell’impegno cui ciascuno è chiamato, in ogni epoca e oggi più che mai, per salvaguardare democrazia e libertà, inducono qualche faceta considerazione sul mondo dell’enogastronomia. Cosa opprime il mondo del food? A cosa è necessario opporre resistenza? Beh, ci sono almeno cinque oppressori che ammorbano, cui pazientemente si resiste in attesa della liberazione.
1) La finta alta cucina di certi ristoranti affoga in una palude di squallide e insulse salsine. Le chiamano “fondo” o “letto” se stanno sotto (pan cotto di broccoli su fondo di fagioli, significherà che hanno frullato i fagioli e allungato il frullato con qualche brodaglia e poi ci hanno piazzato sopra i broccoli sformati con un tagliapasta), usano la preposizione “con” o l’inglesismo “topping” se la melmetta cosparge la composizione. Cari cuochi, cuochini e cuochetti, non basta il minipimer per fare l’alta cucina.
2) La retorica enfatica delle Materie Prime. Una solfa che non si sopporta più per la quale eserciti di mangiatori, siam certi, sarebbero disposti a scendere in trincea pur di liberarsene. Broccolo a chilometro zero, ravanello del contadino disperato, rapa scavata con le unghie da Zia Teresina, zucchina storta salvata da cumpa’ Pietro, patata cardinalizia, grano che un’ape impazzita portò dalla Terra Santa al tavoliere pugliese e via con le più esotiche trovate. BASTA! Va pur detto una volta per tutte che non basta un’ottima materia prima per fare un buon piatto. Occorre un buon manico. Scorrono fiumi di lacrime versate per le violenze subite in cucina dai più pregiati ortaggi, torturati e annichiliti da cotture e trattamenti inappropriati. La filastrocca delle materie prime, poi, pullula di menzogne. I pregiati ingredienti declamati in carta spesso, non hanno mai avuto l’onore di accomodarsi in credenza, rimanendo, è proprio il caso di dirlo, lettera morta. Quante volte, del resto, il pomodorino del piennolo tra il menù, la cucina e il piatto si è trasformato in pomodorino dal colore smorto e dal sapore acqueo degno del banco del peggior supermarket, quello si, a chilometro zero?
3) Il Pistacchio di Bronte ha aperto un sentiero che è divenuto una freeway americana: un tempo al più c’era il gelato, oggi, nel terzo millennio, il pistacchio è ovunque, nei piatti più improbabili, nei formaggi, nel cioccolato, nella zuppa di latte. “Mamma, mi prepari un’insalata di pomodori, per favore?” – “certo amore, ci metto anche un po’ di pistacchio!”.
Se fino a ieri l’altro i mari erano solcati dalle petroliere, oggi a dominar le acque ci sono le pistacchiere, immensi cargo carichi di granella verde. Liberateci dal pistacchio, eserciti dei resistenti del pinolo e della nocciola.
4) I talebani del vino naturale la cui principale colpa non è tanto voler propagare per il mondo puzze immonde, ma aver profanato il dono di Dioniso e i precetti del grande figlio di Zeus. Il vino è stato donato all’uomo per recare piacere, accompagnare discussioni amabili e sagge, alleviare le pene dell’animo, favorire la lascivia erotica. Questi guerriglieri del torbido, ebbri di vinacci, discutono con rabbia, contestano la saggezza, contaminano gli animi di asprezza, rifuggono l’erotico. Oh Dioniso, liberaci da questo male, ti offriremo laute libagioni.
5) L’hashtag #foodporn. Il porno è una cosa seria e segreta, Umberto Eco, non casualmente, scrisse una memorabile bustina di Minerva sul come individuare un film porno. Cosa abbiano a che vedere con il porno le foto di spaghetti avvoltolati a formare un nido, lucidi di olio, mischiati ad ogni ben di dio a sproposito, non si sa. Che c’entra col porno, poi, quel raccapricciante spezzatino di vitello, arcicotto, esanime, bombardato da spezie di ogni continente? Porno non vuol dire barocco, né tanto meno sciocco. Si lasci in pace il porno, che è arguzia e sapienza, si pensi, piuttosto a studiare l’arte amatoria e quella di cucina, si liberi il porno dagli immondi piatti pubblicati sui social network.