di Giancristiano Desiderio
Le opere di sant’Alfonso De’ Liguori, vescovo della mia sciaguratissima Sant’Agata dei Goti che non poco lo fece disperare, sono sempre una rivelazione e ancor più un conforto. Ho l’abitudine di leggerle e guastarle qua e là, un po’ per conoscere il buon cuore e la bella testa di Alfonso – semmai fosse possibile capir gli altri – e un po’ più per intendere me stesso perché, in fondo in fondo, ogni volta che riusciamo a cogliere qualcosa di qualcuno in realtà abbiamo meglio compreso noi di noi e schiarito la penombra nella quale viviamo. Ho sotto mano le Riflessioni sulla Passione di Gesù Cristo in una edizione del 1845 e scorro l’indice dei paragrafi della seconda parte e resto affascinato dai titoli così semplici e così necessari che ne voglio riportare qualcuno: Sulla terra siamo pellegrini, Dell’odio del mondo, Della vita nascosta, Del negozio della salute, Della solitudine del cuore, Del desiderio, e della risoluzione di farsi santo. Ecco, mi sono soffermato su quest’ultimo ritrovandovi una conoscenza del cuore umano che è utile sia all’anima devota, sia all’anima libera e ancor più a questa che a quella.
Il desiderio e la risoluzione sono i due gran mezzi per farsi santi, dice il Santo. Ma c’è desiderio e desiderio, il desiderio di Dio e il desiderio del mondo e il più delle volte non ci si sa risolvere restando nel mezzo. A volte il desiderio, soprattutto il desiderio più alto e divino, è solo una velleità che non giova e fa più danno dei desideri mondani perché si desidera far gran cose ma non se ne hanno forze e costanza e cullandosi nell’illusione si trascurano le piccole conquiste, i miglioramenti quotidiani e i semplici doveri della vita. Se veramente ci si vuole far santi – che significa più umanamente alzarsi e combinare qualcosa di buono in ciò che sappiamo o che abbiamo imparato a fare – bisogna risolversi ad esercitarsi e a considerare che ogni buona cosa costa lavoro. Lo spirito religioso di sant’Alfonso ha un cuore laico o, se volete, lo spirito laico ha un cuore religioso che fin dal primo apparire del cristianesimo si è evidenziato nella necessità e nel gusto del lavoro che Benedetto scolpì nella famosissima Regola.
Dunque, risoluzione, risoluzione dice Alfonso nostro ripetendo santa Teresa perché il diavolo – ma tu guarda, nomino persino il diavolo – non teme le anime irrisolte e irrisolute che cadono nelle sue lusinghe mentre non sa che fare con chi è fermo nella volontà di Dio. Non siamo, forse, abituati a dire che la volontà sposta le montagne? E lo diciamo perché è nella volontà il segreto della nostra vita che è irrisolta fino a quando la volontà non si rafforza e i desideri seguono la direzione del vento, sono il vento. Ma cos’è la volontà se non il desiderio educato? Cos’è se non un lavoro fatto su di sé nell’intento di governare se stessi (mentre i più ambiscono a governare gli altri)? Facciamoci animo, dice Alfonso, e viviamo da ogg’innanzi con questa santa massima: Si dia gusto a Dio, e si muoia. Che, poi, significa di prender gusto a lavorare seriamente la vita e vivere nella luce e nell’ombra e lasciar fare alla storia o alla provvidenza e tutto accettare, se se ne si è capaci, come una grazia.
Possibile? Forse, che Alfonso è troppo santo e non sa che l’uomo è solo un peccatore e la sua vita se vuole esser santa o ambire alla speranza deve passare per i peccati del mondo? Sì, sì che lo sa e vorrei qui riportare la parte finale di questo paragrafo, quella più bella e umana in cui a parlare è il cuore di Alfonso: “Povero me, o Dio dell’anima mia! da tanti anni sto sulla terra, e quale avanzo ho fatto nel vostro amore? l’avanzo mio è stato nei difetti, nell’amor proprio, e nei peccati! E questa vita avrò io da fare fino alla morte?”. Proprio così dice il Santo, il suo avanzo è stato nei difetti, nell’amor proprio più che di Dio, e nei peccati. Così chiede aiuto a Gesù Cristo perché gli dia la sua mano, cerca e invoca la grazia e intanto prega e lavora. Perché il santo non è colui che si distacca dal mondo ma colui che più vi è immerso nel tentativo di prendersi sulle spalle i suoi dolori e anche lui, soprattutto lui pecca e si redime e la sua santità non è in un’inconseguibile distanza o in una disumana perfezione ma nell’operosità con cui si continua nella creazione del mondo che è insieme bello e brutto, santo e dannato. L’uomo giusto è colui che pecca sette volte al giorno e riprende ogni volta l’opera sua a cui religiosamente e laicamente attende. E in questo cadere e rialzarsi, peccare e redimersi, sognare il sogno della edonistica beatitudine e riabbracciare la fede della vita dura e impura sembra quasi di vedere il mondo come in spettacolo e il cuore agitato di Alfonso come di ognuno di noi, santo o diavolo che sia.