di Giancristiano Desiderio
La violenza degli studenti (si fa per dire) italiani si è spinta fino al punto di umiliare i professori. Gli accoltellamenti, i pestaggi, le minacce hanno reso visibile a tutti la violenza che si è manifestata oggi ma che esiste da ieri e ieri l’altro in una stupida condizione di tolleranza e di irragionevole incoraggiamento. L’origine della violenza è duplice e riguarda sia i giovani sia i professori.
I giovani, diceva Goethe, sono insopportabili. Croce lo seguiva e rincarava la dose: i giovani non devono dare fastidio, prima imparano che la vita è una lotta per superare angosce e paure e prima diventeranno adulti consapevoli. Ma oggi dire che i giovani sono insopportabili, e se li sopportiamo è solo perché anche noi siamo stati giovani, è diventato impossibile perché da moltissimo tempo – a partire perfino dal principio del secolo scorso – i giovani non sono più giovani ma sono stati trasformati in una sorta di corporazione o casta alla quale si riconoscono diritti senza doveri. La giovinezza – Giovinezza, Giovinezza! – è stata trasformata in un mito, si è dilatata così tanto nel tempo che ha finito per divorare l’età adulta che di fatto è scomparsa. Oggi si passa direttamente dalla giovinezza alla vecchiezza (che naturalmente non è possibile chiamare vecchiaia). L’età breve, come la chiamava giustamente ancora Alvaro in un suo splendido romanzo, è diventata l’età lunga, ma così lunga, lunghissima, che non si sa realmente quando finisca e a volte si ha l’impressione che termini solo con la morte. E’ uno strano paradosso ma è così: la giovinezza, che in fondo nemmeno esiste, è solo un’illusione, perché è lo sviluppo dell’umanità in crescita, non fugge via, come ancora credeva l’ingenuo poeta, ed è stata trasformata in una categoria sociale con esigenze, richieste, funzioni proprie, oltre ad una strana forma di autoconsapevolezza che si manifesta nell’insulso linguaggio del “noi giovani”. Ecco, a questi giovani – qualunque età abbiano, sedici o sessantacinque anni – è bene dire con chiarezza il detto di Goethe: siete insopportabili, crescete e non rompete l’anima.
Se i giovani sono insopportabili, i loro professori e le loro professoresse lo sono ancor di più. La riforma seria della scuola consiste unicamente nell’attività di studio dei professori che dovrebbero essere liberati dalle scemenze delle programmazioni, dalle stupidità delle riunioni, dalle vacuità delle progettazioni per fare l’unica cosa utile a loro e a tutti: studiare. Solo lo studio e la preparazione rendono autorevoli un professore e una professoressa. Un professore di filosofia che non sa commentare la Metafisica di Aristotele è meglio che se ne stia a casa. Una professoressa di italiano che non sa a memoria la Divina commedia è meglio che stia a casa con il professore di filosofia. E via così a scendere per li rami, che in questo caso fanno proprio al caso nostro. L’idea che i professori per essere rispettati debbano avere lo stato di pubblico ufficiale è una pezza peggiore del buco che fa capire in quale insopportabile manicomio siamo. Il rispetto della funzione professorale può dipendere solo dall’autorevolezza culturale e dalla libertà con cui esercitarla.
Un professore che conosce la sua materia di insegnamento sarà un buon insegnante perché avrà la cultura necessaria da usare per raggiungere il suo scopo: fare uscire i giovani dalla caverna della loro giovinezza per poi ricacciarceli con la consapevolezza di essere umanità in crescita ed educarli insegnando loro come ci si conduce nel mondo individuando problemi e risolvendoli con il gusto dell’intelligenza e la forza della volontà.
Ma che la scuola sia cultura finalizzata alla educazione alla libertà è una verità contro il tempo presente che ha fatto dell’ignoranza e della volgarità diritti acquisiti.