di Amerigo Ciervo
La settimana scorsa abbiamo accompagnato due classi del nostro liceo ad Auschwitz-Birkenau. Un esperienza indicibile ma salutare. La famigerata scritta dell’ingresso – Arbeit macht frei, il lavoro rende liberi – mi ha riportato alla mente un aforisma di Nietzsche: “ogni parola è un pregiudizio”. Che vuole dire il filosofo di Zarathustra? Che è bne stare in guardia rispetto ai pericoli a cui il nostro linguaggio spesso si espone quando crede di cogliere l’essenza delle cose. Solo così l’uomo potrà raggiungere la libertà spirituale e sottrarre la sua mente alle bugie. La medesima necessità – quella di disvelare i pregiudizi, le falsità nascoste nelle parole che usiamo e che orientano il nostro quotidiano – l’abbiamo ancora oggi, ingolfata com’è, la nostra comunicazione, da montagne di pubblicità e di fakes. Diventa così necessario, per la vita, lavorare con attenzione e profondamente sulle parole fondamentali della nostra esistenza.
Tra queste, senza dubbio, libertà è una di quelle da cui è doveroso partire, in questa feconda operazione di scavo e di chiarificazione. La storia del pensiero filosofico o, se volessimo essere più precisi, la storia delle idee ci mostra quanto complessa sia la nozione di libertà, mescolandosi in essa due elementi diversi: la libertà sul piano individuale, intesa come libero arbitrio, cioè l’idea che le nostre scelte soggettive derivino dalla nostra singola volontà e la libertà come principio politico, nella dimensione, appunto, della polis.
Nell’antichità domina un concetto aristocratico della libertà, intesa come esercizio della volontà libera, contrapposta alla vita subordinata degli schiavi. Aristotele, non l’ultimo dei filosofi, ritiene che alcuni uomini siano naturalmente – fùsei – schiavi. Sicché il saggio, che, di solito, coincide con il cittadino libero, è padre delle proprie azioni e padrone delle proprie pulsioni. Il libero, a differenza dello schiavo, non cederà mai alla akrasìa, cioè a quella volontà debole che ci fa schiavi delle nostre passioni. Questa capacità di autodeterminarsi, per gli antichi, arriva fino al punto massimo della libertà del suicidio, qualora talune vicende dovessero privare il saggio della propria capacità di autodeterminarsi. Seneca, stoicamente, si suicida. Così come Catone l’Uticense, che Dante esalta nel primo canto del Purgatorio:
libertà va cercando, ch’è sì cara,
come sa chi per lei vita rifiuta.
Il problema del libero arbitrio comincia ad affermarsi con il cristianesimo che si trova nella necessità di dover far convivere due concetti opposti: quella di un Dio onnipotente e onnisciente, che conosce da sempre che fine faremo nell’aldilà, e l’idea che, essendo noi a scegliere liberamente cosa fare, da soli conquisteremo il paradiso o, sempre da soli, sprofonderemo nel fuoco eterno. E’ Agostino a mettere in campo tale problema, per opporsi al fatalismo stoico (Ducunt volentem fata, nolentem trahunt, Il fato conduce chi si lascia guidare e trascina chi non vuole, ricorda Seneca a Lucilio, citando il filosofo Cleante.
Come Agostino risolva il problema del rapporto fra libertà, volontà e grazia, ce lo spiega con chiarissima sintesi il grande storico del pensiero medievista, Etienne Gilson: Due condizioni sono richieste per fare il bene: un dono di Dio, ossia la grazia e il libero arbitrio. Senza il libero arbitrio non ci sarebbe problema. Senza la grazia, il libero arbitrio, dopo il peccato originale, non vorrebbe il bene, o, se lo volesse, non potrebbe compierlo. La grazia quindi non sopprime la volontà ma la rende buona, da cattiva che era diventata a causa del peccato originale. La libertà è così proprio il potere di usare bene il libero arbitrio. La possibilità di fare il male è inseparabile dal libero arbitrio, ma poter non farlo è il contrassegno della libertà. Trovarsi confermati nella grazia, al punto di non poter più fare il male, è il grado supremo della libertà: l’uomo dominato dalla grazia di Cristo è anche il più libero. Libertas vera est Christo servire.
La musica cambia nel Rinascimento, agli albori della modernità. Il problema si ripropone e a riproporlo, in chiave assolutamente nuova, è un monaco, guarda caso, agostiniano, Martin Lutero, che si confronta dialetticamente con i sostenitori del libero arbitrio, tra i quali il più puntuto di tutti è Erasmo. Per Lutero, Dio tutto sa e tutto dispone. La nostra libertà è un’illusione, dal momento che, dall’inizio del tempo, ognuno di noi è destinato ad essere o schiavo del peccato o servitore della giustizia. Se questo è vero e se “iustus ex fide vivit”, se il giusto è salvo per la fede, come afferma Paolo nella Lettera ai romani, la lettera che il professor Lutero presenta ai suoi allievi, nel corso universitario del 1515, a Wittenberg, non avrebbe più senso l’impianto teologico-organizzativo della Chiesa, che ritiene di essere la depositaria unica dei tesori della grazia e, per questo, l’unica possibilità di salvezza per l’uomo.
Paradossalmente, proprio agli albori della modernità, quando alcuni princìpi intravisti dai filosofi antichi e dal Cristianesimo (si pensi all’eguaglianza dei figli di Dio o a quell’autentico progetto di radicale inversione del mondo contenuto nel canto del Magnificat) saranno innervati nelle Costituzioni o nelle prassi politiche scaturite dalle rivoluzioni, si mette in crisi il libero arbitrio.
Ma il paradosso è soltanto apparente. Saranno le accelerazioni della storia a rendere sempre meno accettabili quei vincoli di subordinazione, dagli antichi considerati assolutamente naturali. La libertà diviene l’obiettivo politico per eccellenza e sarà un grande filosofo tedesco, Hegel, a mettere, al centro della sua prima grande opera, La Fenomenologia dello Spirito, la lotta per il riconoscimento, lo scontro dialettico tra il servo e il signore. Lo scontro si risolverà nella vittoria del servo, che diventerà il signore del suo signore grazie al lavoro che trasforma la natura e produce le cose di cui abbiamo bisogno.
Del resto la rivoluzione scientifica, riconoscendo l’influenza della materia sullo spirito, aveva finito per privilegiare l’ordine meccanicistico del mondo. In una simile prospettiva, non c’è nessuno spazio per la libera scelta. Per Spinoza quando diciamo di essere liberi, o mentiamo o stiamo dando luogo ad una pia illusione. In realtà, le azioni dell’uomo non differiscono da una pietra che cade per la forza di gravità.
Spinoza e Locke nascono nello stesso anno, il 1632. Sono gli anni in cui si gettano le basi della prima rivoluzione borghese d’Europa, quella inglese, di cui il filosofo inglese traccerà le linee teoriche-guida.
«Lo stato mi sembra la società degli uomini costituita soltanto per conservare e accrescere i beni civili. Chiamo beni civili la vita, la libertà, l’integrità del corpo e la sua immunità dal dolore, e il possesso delle cose esterne, come la terra, il denaro, le suppellettili ecc…» Sono i diritti naturali, che il padre del liberalismo assegna allo Stato di tutelare: i diritti inviolabili che – con i doveri inderogabili – vengono citati dall’art. 2 della nostra Costituzione di cui quest’anno ricordiamo i settant’anni. Peccato che il filosofo, universalmente considerato il padre del liberalismo, pur tenendo un atteggiamento tollerante rispetto alla schiavitù in America, si sia fatto una barca di soldi grazie alle azioni della Royal African Company, la società impegnata nella tratta degli schiavi. Come succede spesso, si predica bene ma si razzola malissimo. Non sarebbe male auspicare il contrario: predicare male e razzolare benissimo.
Un secolo più tardi, Marx scriverà: “I borghesi amano parlare della libertà, ma è della loro libertà che parlano. Non della vostra”. Il filosofo tedesco pone un problema serio. Che razza di libertà è, una libertà solo formale? A questa questione tenta di rispondere l’art. 3 della nostra costituzione, quello che prevede che la Repubblica metta in atto ogni possibile azione per rendere effettiva la libertà di tutti i cittadini, senza nessuna distinzione. La libertà senza eguaglianza serve a poco. La libertà senza giustizia non serve quasi a nulla. Si dice di solito: la tua liberà finisce dove comincia quella di un altro. In realtà si dovrebbe dire la tua libertà diventa più piena, di fatto comincia quando comincia anche quella dell’altro. E a chi va ripetendo: oggi c’è troppa libertà, rispondete pure: ce n’è sempre troppo poca.
Insomma questa parola ci riguarda tutti. E Dio non voglia di doverci trovare un’altra volta nell’obbligo di dover combattere per conservarla o, peggio, per riconquistarla. Il fatto è che, come l’aria, ci si accorge della sua necessità quando essa comincia a mancare. Le nostre pratiche, individuali e politiche, tendano verso questa finalità primaria. Come per lo schiavo della caverna platonica, arrivare a contemplare la verità – che ci farà liberi, come è detto nel Vangelo di Giovanni – è un esercizio quotidiano, lungo, complesso, anche difficile, ma è l’unico esercizio che rende la nostra vita degna di essere vissuta. Come seppero bene tutti quelli che per la propria libertà e la libertà del loro paese offersero la vita: giovani, come Benedetto, Aldo, Francesco e Rosario, a Faicchio, nel 1943, donne, come Maria Penna a Firenze, nel 1944, preti come don Pietro Pappagallo o don Giuseppe Morosini, a Roma, intellettuali, come Eugenio Colorni, uno degli autori del celebre Manifesto di Ventotene. Ma così come il sangue dei martiri divenne seme per i cristiani, il loro sangue è diventato il seme della nostra Costituzione. Dove, appunto, ritroviamo le radici della nostra libertà.
(relazione tenuta in occasione di “Nero su bianco”, premio letterario “Mino De Blasio”, organizzato dall’associazione culturale “Provenza…Mino”)