di Amerigo Ciervo
Tra qualche giorno è Pasqua. Ho finalmente ritrovato, in queste ultime settimane, lo spazio per la gioiosa sofferenza della riflessione. Rientrare in se stessi, ogni tanto, accantonando tempi e impegni mondani, è un atto necessario. In fondo, sono solo le passioni a sostenere e a sostentare le nostre misere, limitate esistenze. Sono partito da un passo di Luca, che racconta un tempo della vita di Cristo lontanissimo dalla Pasqua. Un tempo, apparentemente, molto più vicino al Natale. Il passo è il seguente: “E sua madre gli disse: “Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati ti cercavamo” Ed egli rispose: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”. Ma essi non compresero le sue parole. Partì dunque con loro e tornò a Nàzaret e stava loro sottomesso. Sua madre serbava tutte queste cose nel suo cuore.” (Luca 2, 48-52)
Maria e Giuseppe, come ogni Pasqua (Pésach), si sono recati a Gerusalemme, portando con sé il figlio dodicenne. Accade che, nella confusione e nel trambusto della festa, se ne ripartano senza accorgersi che il ragazzo non è con loro. Devono tornare indietro e, dopo tre giorni, lo ritrovano nel tempio, a interrogare i rabbini.
Come al solito, a parlare è la mamma. Le sue sono parole profondamente preoccupate. Proviamo, per un attimo, a sostituirci ai due genitori di Nazareth. Dopo aver cercato il proprio figliolo per locali notturni e pub, dopo aver telefonato a tutti gli amici possibili, di cui, ovviamente, conserviamo nell’agenda del telefonino i numeri, infine lo ritroviamo. Semmai al muricciolo dell’angolo sotto casa. Ci rivolgeremmo al giovanotto alla medesima maniera: Ma perché ci hai fatto così? Perché ti comporti in tal modo? Tuo padre e io, siamo stati davvero angosciati (odunòmenoi, da odunào, che, in greco, nella forma medio-passiva, indica proprio il “sentire dolore”). Ai nostri tempi si porta anche un’altra frase: Eppure non ti abbiamo fatto mancare mai nulla…
Ritorniamo al racconto evangelico. E’ evidente che non siamo di fronte a un gesto compiuto in nome della trasgressione per la trasgressione. Gesù deve “occuparsi delle cose del Padre”. E’ necessario, per lui, “essere nelle cose del Padre” (en tois tou patròs mou dei einai me;). Egli vive nella dimensione del Padre, ossia, nella prospettiva del cielo. Una volta ancora, il vangelo evidenzia il mistero paradossale del Cristianesimo, che è l’infinita differenza qualitativa. Maria e, meno che mai, Giuseppe, non sono ancora nelle cose del Padre. I due poveri genitori, “umani, troppo umani”, non si comportano diversamente da tanti altri genitori. Da tutti gli altri genitori.
Certo, avranno evitato quel rinfacciare le cose che si concedono ai figli, ma non comprendono quel discorso. (Ou sunèkan to rema: non comprendono (sun-éko) quello che viene detto. Platone intende, con to sunékon, l’argomento principale. Dunque: non riescono a cogliere l’essenzialità). Dopo aver chiarito quanto occorreva, Gesù ritorna, docilmente, a casa. Ed è loro sottomesso (upotassòmenos). Maria mette da parte questi momenti, serbandoli nel suo cuore di madre. Un giorno comprenderà. E sarà un altro dolore, ancora più profondo e lancinante, a disvelarle quello che si potrà chiamare to sunekon, “l’argomento principale”, ossia la Croce. Saranno soprattutto le donne a comprendere il valore dell’argomento principale. Del resto, se non si attraversa l’esperienza della Croce non si dà neppure la Resurrezione. Il chicco deve morire come chicco per poter dare frutti. E al chicco che muore pensa forse Hegel, quando, nel costruire, come una cattedrale gotica, il suo sistema, individua nella negazione, nell’opposizione, l’unica possibilità dinamica in grado di rompere, di spezzare la conoscenza astratta della realtà. Insomma occorre attraversare la morte per poter risorgere. “Cristòs anésti: Cristo è risorto”, è l’augurio che i cristiani d’oriente si scambiano il giorno di Pasqua. “Aritòs anèsti: è veramente risorto”, si risponde, in tal modo confermando, nello scambio augurale, la propria fede nella resurrezione. Ma dove risorge Cristo?
Risorge forse nell’assenza della profezia, nel mutismo dei cani da guardia di Isaia, che non abbaiano contro lo scandalo di un mondo che riserva tutti i beni a un gruppo ristrettissimo di uomini? Risorge quando non si cerca, in ogni modo, di inverare nella storia quotidiana la straordinaria forza di una Parola che non muore?
No, Cristo non risorge in questi luoghi.
E dove, allora?
Risorge tra i poveri del mondo, tra i migranti dei barconi, su cui, da qualche settimana, raggiunto l’obiettivo del potere, è calato il velo del silenzio. Risorge tra le donne e gli uomini che perdono il lavoro o tra quelli che mai riusciranno a conquistarne uno, tra le donne uccise e i bambini oltraggiati, tra i torturati e i morti per la libertà. Paradossalmente, Cristo risorge lì dove la morte sembra vittoriosa.
E chi, pur dicendosi suo seguace, non fa nulla – e noi, pur dicendoci suoi seguaci, non facciamo nulla – perché i poveri, i migranti, i precari, i disoccupati, le donne e i bambini siano sottratti alla “morte”, in forza del comandamento nuovo, lo tradisce – lo tradiamo – due volte. Oltre al Cristo, vengono traditi coloro a cui la buona novella è destinata: “Ti ringrazio, Padre, perché hai rivelato queste cose ai piccoli e le hai nascoste ai potenti.” (Matteo, 11,25) Buona Pasqua di resurrezione.