Un paio d’anni fa, quando la mitica Taverna di Orazio meglio nota come Stella Artois, benché non avesse quella insegna e non avesse più in carta le omonime birre, viveva un periodo di difficile transizione che poi ha portato alla chiusura ed ad un (ulteriore) cambio di gestione, Andrea Lepore fu lanciato come pizzaiolo dall’allora titolare Generoso Maio. Fu un’intuizione che nonostante tutto non portò fortuna. Lepore, molto sicuro di sé, serviva una pizza tutto sommato normale, meno peggio della media beneventana, ma aveva idee ed entusiasmo. Aprì un banchetto a pranzo per la pizza a libretto e qualche frittura. All’epoca le fritture gli venivano bene ma non furono apprezzate più di tanto.
Lepore, poi, prese a lavorare per altre pizzerie; da qualche giorno, infine, ha aperto una sua pizzeria, La Pampanini ridando alla città il suo storico ritrovo in via San Pasquale, a pochi passi dall’Arco di Traiano.
Diciamo subito che, purtroppo, solo i Palmieri, fondatori della Taverna di Orazio, hanno avuto l’umiltà e la capacità di rinnovare il locale, nel tempo, senza mai stravolgerlo in peggio. Gli “affreschi” (ben ardita definizione) che oggi campeggiano sui muri dei locali ristrutturati sono inquietanti nei colori e violenti per i tratti grossolani. Il bianco assoluto di alcune pareti e del soffitto che assieme alle chiarissime luci vorrebbero trasmettere idea di candore e modernità e sin’anche la fantasia del colore dei tavoli restano annichiliti non appena lo sguardo malauguratamente impatta quei grevi disegni della vecchia diva e di luoghi iconici della città.
L’accoglienza è pessima. Al telefono intimazioni di puntualità con superbia di toni e parole che sollecitano a cambiar destinazione. All’ingresso un giovanotto tenta di opporsi fisicamente all’entrata e occorre precisare che stiamo per unirci ad ospiti già accomodati per ottenere un salvacondotto.
Ben altri modi, fortunatamente, per il servizio interno, efficiente, cortese e estremamente paziente nel raccogliere le lamentele, inevitabili, sui tempi. Quarantacinque minuti per servire una pizza sono troppi. La folla si accalca fuori il locale, senza che nessuno dentro mangi e quindi vada via. Se proprio non si volesse tener conto della pazienza degli astanti, almeno dal punto di vista economico l’ottimizzazione dei tempi potrebbe avere risvolti positivi. Diamo su questo aspetto alla Pampanini l’attenuante del rodaggio per aver da poco aperto, riscuotendo subito un successo di presenze.
Chiudiamo le dolenti note con le fritture: non all’altezza delle ambizioni platealmente esposte da Lepore con l’impostazione del locale. I crocchè, bruni già a inizio serata, sono serviti tiepidi e con il tassello di mozzarella non sciolto. Sapore insulso. L’arancina, così indicata in menù, sposando, chissà perché, la definizione palermitana, è insignificante di dimensione e di sapore. La pizza fritta, ruvida ma ben cresciuta, arriva impregnata d’olio oltre misura (e siamo sempre a inizio serata).
Una pizzeria, però, va giudicata per la pizza e qui La Pampanini prende la sufficienza piena. L’impasto è massiccio, seppur steso sottile, il cornicione resistente assai, ma la lievitazione è pienamente svolta come denuncia il color caramello del cornicione stesso e conferma la successiva notte serena.
Un particolare apprezzamento meritano per i condimenti, tanto per la indiscutibile qualità che per la fantasia. La gamma di pizze tra cui scegliere è ampia e a tratti originale. I prezzi delle pizze sono da considerarsi più che equi.
L’offerta di birre, non originale né ampia, è però ben calibrata tra buone industriali e buone artigiani. Interessante l’offerta di vini, giustamente limitata a sole etichette capaci di ben sposarsi con l’offerta del menù.