di Giancristiano Desiderio
E’ nota la frase di Hegel che vedendo il Generale a cavallo dominare la scena mentre il suo esercito prendeva possesso di Jena disse: “Ho visto lo spirito del mondo a cavallo”. Solitamente la frase è citata ponendo l’accento sullo spirito del mondo – Weltgeist – e lasciando in secondo piano il cavallo che pure lo ha condotto fin lì. Tuttavia, la citazione che ci raffigura la scena ha senso solo se si considera che Bonaparte è in sella al cavallo e calcando e cavalcando la scena europea crea la nuova epoca storica che si è aperta con una Rivoluzione che se non si “arresta” divora, come Kronos, i suoi figli. Il cavallo è decisivo altrimenti lo spirito non avrebbe come condursi nel mondo e più che spirito del mondo sarebbe spirito senza mondo. Anche Croce, al pari di Hegel e di Napoleone, ha il suo cavallo selvatico e fiero e lo cavalca cercando di domarlo per dare armonia alla corsa della vita e renderla così operosa e ci avverte di non interessarci più di tanto alla sua inquieta individualità perché, in fondo, questa inquietudine interessa solo lui che ora cavalca questo cavallo “e quando ne sarò disceso gli altri faranno bene a non occuparsene”. Eppure, senza questo cavallo inquieto non ci sarebbe la vita operosa, tanto che nell’ultimo vitalissimo Croce il cavallo lanciato al galoppo diventa una categoria dello spirito: la Vitalità che ri-pensa l’Utile. Anche la filosofia dello spirito, dunque, cavalca un cavallo irrequieto che si chiama Vita.
Per capire Croce dobbiamo essergli fedeli, come diceva Raffaele Mattioli, ma per capirlo al meglio dobbiamo essergli anche infedeli o non inerti cioè attivi e spregiudicati, come diceva Raffaello Franchini e come, del resto, era lo stesso Croce. Dentro ogni filosofia, se è filosofia e non pedanteria, c’è un selvaggio cavallo nero dagli occhi iniettati di sangue, come da sempre dice Platone, che sembra uscito (il cavallo ma anche Platone) da una buia caverna. Senza il cavallo nero non si va da nessuna parte e la nostra vita sarebbe sterile e desertica, ma per avere una vita creativa e operosa non è possibile lasciare andare il cavallo nero a briglie sciolte. E’ necessario addomesticarlo quel tanto che basta per governarlo senza privarlo della libertà. Solo se il cavallo è sellato e governato lo si potrà cavalcare come il Generale e fermare quella rivoluzione che ognuno di noi si porta dentro come distruzione e creazione: la vitale fonte non detta del suo lavoro. Allora, aveva ragione Croce nell’avvertire che sarebbe stato del tutto inutile occuparsi del suo cavallo quando ne sarebbe disceso perché il giudizio lo si può esprimere solo sulle reali opere create con il lavoro del cavallo domato, ma è altrettanto vero che le opere, i fatti, le creazioni, le qualità sono frutti e fiori che germogliano sulla verde pianta della vita.
Il Contributo alla critica di me stesso è un’autobiografia intellettuale e morale in cui lo stesso Croce diventa oggetto del suo pensiero. E’ vero – e lo ripeteva lo stesso Croce – che con le autobiografie bisogna sempre essere prudenti giacché sul piano verbale non sono dissimili dai romanzi, le immaginazioni, i sospiri, gli sfoghi, gli odi, le calunnie, gli affetti, insomma, più o meno le sfuriate del cavallo nero che va per la sua strada, ma se sono realmente autobiografie altro non sono che veri atti di pensiero storico che raccontano la vita passata che si è fatta attraverso opere e azioni nate dalla collaborazione in cui ogni individuo è in relazione con tutto. E’ vero che non tutte le biografie si possono convertire in autobiografie ed è ancor più vero che non tutto della biografia si può dire: non perché ci siano cosa da tacere ma perché non tutto è degno di essere detto e rimane al di sotto della soglia dell’opera. Tuttavia, ognuno di noi è il biografo di se stesso perché l’autobiografia, scritta o ideale che sia, è un momento costitutivo della nostra vita che ciclicamente entra ed esce dalla caverna, sale e scende dal cavallo nero, e questo entrare e uscire, salire e scendere altro non è che il controllo che facciamo di noi per ricostruire ciò che è accaduto per poi ridarci alla vita e all’abbandono di sé. L’autobiografia, dunque, è storia. E Croce la fece al più alto grado non per avvalorare una certa idea di sé ma per invigilarsi e così meglio abbandonarsi ad una vita insieme rafforzata e addolcita dal governo del selvatico e fiero cavallo.
E’ vera, però, anche la reciproca ossia che la storia è autobiografia. Anzi, se non c’è autobiografia non c’è storia e se si cerca una differenza tra autobiografia e storiografia si cerca invano perché sia la prima sia la seconda sono opere storiche e fare la differenza che la prima è mia e la seconda è altrui equivale a mostrare di non capire che nel giudizio storico si ricostruisce una relazione e non una improbabile proprietà. Ma se si dovesse essere spinti a scegliere un primato, ebbene, bisognerebbe decidersi per l’autobiografia perché che l’opera da giudicare sia una mia azione o Il Misantropo di Molière è necessario che passino entrambe attraverso quella mia e non mia umanità che io sono a me stesso e che mediando tra opposte forze, tra le quali c’è sempre il cavallo nero, esprime il giudizio.