di Amerigo Ciervo
Un viaggio elettorale è un godibilissimo diario-racconto del giro, compiuto nel suo mandamento, in occasione delle elezioni suppletive del 1875, dal candidato Francesco De Sanctis. Il libro è uno straordinario, puntualissimo documento sulle condizioni di vita di alcuni paesi della Campania interna, sul mondo dei “possidenti”, dei “galantuomini” e dei contadini poveri, sulle alleanze e sugli intrighi in un periodo della storia politica italiana per il quale gli storici dovranno coniare il celebre concetto di “trasformismo”. Terminata la campagna elettorale, contati e ricontati i (pochi) voti, anch’io – absit iniuria verbo -, tenterò di mettere mano a una riflessione sull’esperienza che mi ha visto, nell’ultimo mese, direttamente coinvolto. Non abbozzerò nessuna analisi politica, per la quale occorrerà ancora riflettere, e molto, sui risultati. Tra l’altro, molto spesso succede che le analisi da condurre, dopo una sconfitta, con acribia, con testardaggine e, innanzitutto, con franchezza, diventino terreno fertile più per sofisti patentati che per militanti e dirigenti seriamente impegnati, se non a scoprire le cause della disfatta, quanto meno a lavorarci sopra con serietà e rigore.
La mia sarà, quindi, una riflessione rapsodica attraverso cui vorrei condividere, con le tremilacinquecentottantatre persone che hanno votato il simbolo con accanto, insieme ad altri, compariva il mio nome, il senso di un’avventura alla quale non mi pento d’aver partecipato.
Ora capita che, mentre stai riflettendo, tu apra un libro, il vangelo di Luca, e vi legga un passo: “E nessuno mette vino nuovo in otri vecchi; altrimenti il vino nuovo spacca gli otri, si versa fuori e gli otri vanno perduti. Il vino nuovo bisogna metterlo in otri nuovi.” (Lc. 5, 36-38) Caspita, ti dici, è tutto chiaro. A questo punto, si potrà invitare i sofisti di cui sopra a chiedere educatamente licenza e a disporsi, magari se se ne dovesse presentare l’occasione, per altre, rinnovate pantomime. La questione era più semplice di quanto in verità si potesse pensare: non è possibile mettere vino nuovo in otri vecchi. Il vino nuovo va messo in otri nuovi. Con le liste che LeU ha messo in campo – dopo una defatigante maratona, degna davvero di miglior causa – s’è pensato di versare vino nuovo, in otri vecchi, sapientemente e “nascostamente” serbati nelle cantine plurinominali, limitandosi, furbescamente, ad esporre qualche otre nuovo sulle bancarelle uninominali. Io sono stato uno di questi otri nuovi. Del che, ripeto, non mi pento. La scelta di accettare l’invito a correre all’uninominale è stata libera e consapevole. Ne ho più volte, in queste settimane, spiegato il motivo. A sessantacinque anni, non avendo politicamente militato dal 1980 (eccezion fatta per il miserrimo ed immediatamente abortito tentativo di ALBA), ho ritenuto che in alcune occasioni ci si possa, ci si debba mettere a disposizione per un servigio da rendere, prima di tutto, ai propri valori, in ossequio a quell’oggetto della ragione che, per Kant, è la legge morale. Lo so. Non pochi, a una simile motivazione, non esiteranno, dati i tempi, a sghignazzare. Ma vorrei assicurare gli anonimi sghignazzanti: per me è andata proprio così. Sapevo bene, fin dall’inizio, come le probabilità di elezione fossero anche più basse della possibilità di indovinare sei numeri in fila per una vincita plurimilionaria al superenalotto.
Diciamolo, dunque, con chiarezza. A sinistra s’è aperta una voragine così profonda da farci giungere a dubitare sul valore stesso delle nostre idee, o che esse siano “passate di moda” o diventate, addirittura, residuali. Niente affatto. Continuo ad essere arcisicuro che i principi-cardine della nostra tavola valoriale (la libertà, la democrazia come prassi concreta, l’uguaglianza non puramente formale, la giustizia sociale, l’inclusione, i diritti inviolabili e i doveri inderogabili, l’accoglienza, la cura della terra e, per ultima ma non certamente ultima, la pace) siano ancora gli unici fattori che abbiano finora contribuito e contribuiranno a migliorare, in prospettiva futura, le condizioni materiali e spirituali di vita delle donne e degli uomini dell’universo mondo. Il problema è che noi non siamo stati credibili. Ed è solo colpa nostra se questi valori siano stati, da moltissimi del nostro campo, intravisti e cercati in altri territori. Perché “mister Catastrofe” (Asor Rosa su Renzi) ha combinato pasticci inenarrabili, rovesciando quasi dialetticamente i riferimenti sociali (Marchionne in luogo degli operai), mettendo il marchio definitivo alla ventennale, folle politica scolastica che ha mutato dalle fondamenta la scuola inclusiva e democratica pensata dalla Costituzione, applicando a puntino le direttive dei poteri forti a proposito dell’eccessiva rigidità antifascista di certe carte fondamentali. A questi “meritori” – si fa per dire – atti politici molti di quelli che si sono presentati come alternativi, in LeU, avevano offerto una valida mano, opponendosi a parole, nei fatti votando senza nessun problema tutto quello che c’era da votare.
Ora da qualche parte si sente dire: in Italia siamo dentro una rivoluzione gentile. Secondo me, l’espressione “rivoluzione gentile” è un vero e proprio ossimoro. Le rivoluzioni, quelle vere, quelle che cambiano radicalmente il mondo, non sono mai gentili. Non possono esserlo. Dovendo incidere nella carne viva delle società, dovendo travolgere antichi equilibri e annientare privilegi consolidati, le rivoluzioni sono state violente, dure, anche cruente, e portate avanti da gruppi ristretti di uomini che, immediatamente dopo, sono stati essi stessi travolti dai meccanismi da loro medesimi messi in moto. Sotto il cielo azzurro d’Italia, di rivoluzioni simili, non se ne sono viste mai. Ricordo come si parlasse di “rivoluzione liberale” anche nel 1994 e tutti abbiamo visto com’è andata a finire. In fondo, a mio avviso, il risultato del 4 marzo è il frutto di un ulteriore riposizionamento di larghi strati, interclassisti, (con tutta l’ambiguità possibile che un aggettivo simile oggi si porta con sé) di una società che non riesce a ritrovare, dalla fine del vecchio contesto internazionale e dalla crisi dei vecchi partiti, il bandolo della matassa, un punto di riferimento sicuro e solido, muovendosi tra le varie formazioni politiche che via via, sulla scena politica, sembrano, in una certa fase, poter rispondere alla bisogna. La nostalgia, forte e mai sopita, e il bisogno di una nuova DC, ovvero di un partito dove sia possibile far convergere, rappresentare e risolvere interessi diversi, vari, spesso in contraddizione tra di loro, sono forti e marcati. Nel voto ci ritroviamo, certamente, la rabbia, la delusione, la paura per il futuro, la sicurezza, la mancanza di visione, la percezione inconsapevole, di una lenta, irrefrenabile crisi del paese. Ma il problema primario resta questo: la necessità di ritrovare un posto che non sia destra, sinistra, centro. O che sia, insieme, tutto questo.
E per chi si è buttato in questa avventura? Quale futuro? Parlo, ovviamente, per me. Innanzitutto sarà necessario un grandissimo bagno di umiltà. Poi riscoprire la via dell’analisi, dello studio, della serietà, sostituendo alla retorica 2.0, a quelle lunghe, inutili, defatiganti discussioni sui social che spesso ricordano i bambini che si misurano il pisello, la scelta del rigore intellettuale. Ricostruire spazi – non virtuali ma reali – dove ritornare ad ascoltare donne e uomini – e, tra questi, primi gli ultimi – ascoltarne i problemi, i disagi, i drammi. Spazi dove potersi confrontare, secondo regole e principi chiari. Insomma riprendere a fare politica. Nel frattempo torno a lavorare con la mia associazione, che è l’ANPI. Sconfitto, certamente, ma pure arricchito dalle tante persone che, con telefonate, messaggi o avvicinandomi personalmente, hanno inteso ringraziarmi, come molti hanno espressamente scritto, “per esserci stato”. Noto, con particolare soddisfazione, che tantissimi segnali mi siano giunti da ambienti lontani dal mondo della sinistra. Continuo ad interrogarmi sui miei errori, criticamente, chiedendomi dove avrò sbagliato se, per esempio, in qualche paese della provincia, non sono riuscito a convincere i tanti, che avevano votato LeU al Senato, a farlo anche alla Camera. In conclusione: non so se sia servito a qualcosa. Per adesso quello che conta è che, nonostante tutto, continui a dormire sonni tranquilli.