di Giancristiano Desiderio
Con la Sampdoria c’era un conto in sospeso: all’andata era finita 2 a 1 per i blucerchiati dopo l’illusorio vantaggio con cui il Benevento aveva assaporato l’esordio in serie A. Quella illusione il Benevento l’ha pagata a caro prezzo: quattordici sconfitte di fila per un record mondiale così simile a un Calvario. Oggi con la prima giornata del girone di ritorno il Benevento è sceso in campo con la consapevolezza ormai di chi ha conosciuto sulla propria pelle la carica ironica del gioco che punisce chi crede di essere padrone del campo. La squadra di De Zerbi, in campo senza il suo miglior uomo, giunto a metà del secondo tempo ha capovolto il proprio destino con tre gol di rara bellezza sia per l’individuale gesto tecnico sia per la costruzione di gioco della squadra.
Massimo Coda davanti all’area di rigore della Samp sembrava per davvero il guerriero sannita forte per fierezza e milizia. Il gol del pareggio è bello e giocondo come il sole di san Francesco, la punizione dal limite è la giusta conclusione della cavalcata di D’Alessandro buttato giù dopo sessanta metri palla al piede, l’assist per Brignola che taglia l’area avversaria è la vitalità occhiuta e determinata di una squadra che passando attraverso il fuoco delle prove e delle sofferenze sa che deve andare a prendersi ciò che le spetta. Tre gol in mezz’ora non sono un episodio ma l’espressione di un calcio che il Benevento ha conquistato con una forza d’animo e la dignità di una tifoseria calcistica e di semplice simpatia che valgano già un campionato. L’avventura del Benevento nella massima serie è l’espressione di un destino che racconta una storia umanissima che ha molto da dire in campo e fuori dal campo.
In tribuna il presidente Oreste Vigorito gioiva con un’emozione che quasi si vergognava di esprimersi, come se il pudore dell’uomo prevalesse sull’entusiasmo del tifoso. E loro, i tifosi, al di là della barriera lo chiamavano e gli stringevano la mano non per complimentarsi ma per vivere insieme un momento di gioia umana che è bella perché è figlia della sofferenza, della conquista, del carattere, della volontà e della consapevolezza di aver dato tutto per creare una storia degna di essere raccontata. Giù in campo, invece, c’era De Zerbi, l’allenatore De Zerbi, lo zingaro che si prende la rivincita, che ritornava sui suoi passi e gioiva, ma anch’egli con un’emozione felice frutto dei tanti dolori e tante angosce per le sconfitte subite per ingenuità, imperizia e sfortuna mentre ora, la legge inesorabile del lavoro e della formazione, gli lascia assaporare il gusto di una vittoria non scesa dal Cielo ma venuta su dal senso della terra erbosa. Dopo quattordici sconfitte di seguito ecco due vittorie consecutive che per il modo in cui sono maturate dicono una verità provata: la squadra gioca e i risultati arrivano.
Il girone di andata del Benevento è stato tutto in salita: un’anabasi. Il girone di ritorno non sarà in discesa: una catabasi (anche perché la catabasi è la discesa negli Inferi e il Benevento all’Inferno già c’è stato, proprio questa è oggi la sua forza). No, anche il girone di ritorno sarà ancora un’anabasi, un andare in salita, una conquista partita su partita, una spedizione verso l’interno per conquistare il premio più difficile: se stessi. Il Benevento non può fare altro che giocare controvento e allontanare da sé lo spettro della salvezza come un’illusione diabolica. E’ una trappola da evitare. La forza del Benevento oggi è il suo stesso gioco e questo deve praticare senza l’ossessione del calcolo e della speculazione che lo conduce alla sconfitta ancora prima di giocare. Oggi il Benevento ha un vantaggio su tutte le altre squadre: sa di poter giocare per giocare. Il gioco per il gioco non si esercita neanche in Paradiso ma solo sulla Terra e avviene quando si matura la consapevolezza di non poter più perdere perché la sconfitta non è più in grado di farti male. E’ un vantaggio importante che il Benevento giocando con leggerezza e determinazione non deve perdere. Il resto, se verrà, verrà da sé.