di Giancristiano Desiderio
A volte mi sorprendo a pensare di aver completato il mio lavoro e di non poter più dare ormai il mio contributo, sia pur modesto. Invero, non è un pensare ma un vagheggiare perché passando dalla vaghezza al pensiero quella, sia pur modesta, forma di compiacimento dilegua lasciando il luogo ai doveri e ai fatti, sempre duri a morire, che chiedono adempimenti e pensamenti. Eppure, quella vaghezza con senso di tristezza ritorna anche dopo essere stata scacciata e rintuzzata.
Sembra che in gioco vi sia qualcosa di più di un sentimento personale, qualcosa che ha a che fare con una persistenza di un antico se non vecchio modo di intendere la filosofia e il suo ufficio indirizzato alla conoscenza di un tempio eterno e alla contemplazione del sopramondo. E’, per dirlo in breve, la nostalgia per la vita contemplativa che nella sua contemplazione della verità offriva pace, tranquillità e beatitudine agli uomini di pensiero sollecitando i loro egoismi e le loro comodità. La conoscenza della verità, difatti, pur tra strazi e dolori e angosce e drammi, dà un senso di conforto e di pace che nella vecchia idea di una filosofia che divideva la vita in un mondo e in un mondo sopra il mondo era tramutato nel primato della vita teoretica sulla vita attiva e la figura del filosofo o del saggio o del sapiente raffigurava l’uomo illuminato capace di liberarsi dai turbamenti passionali, dagli errori e dai sofismi e degno di impiantarsi in pianta stabile nel cuore della verità che – come disse una volta il vecchio terribile e venerando Parmenide – non trema mai.
Ma, appunto, questa idea della filosofia è una nostalgia sollecitata da egoismi, fiacchezze e stanchezze che, seppur umanissime, non possono più essere giustificate dal pensiero né sostenute dalla società (che, in verità, pur mantiene una vastissima schiera di ozianti che forse il regime antico non conobbe con gli ordini religiosi e monacali).
Cosa resta, dunque, della contemplazione e della beatitudine e dove c’è un bagno spirituale che ci deterga dalle macchie e dalla fanghiglia inevitabile della vita? Resta il giudizio storico che in quanto verità pur ci dà pace e gioia e ci ripulisce dalle lotte e passioni della vita pratica, ma non ci trasporta in un mondo sopra il cielo e, semmai, ci conduce ancor più per le vie del mondo e dopo aver distinto, schiarito e ripulito, come si fa nei lavori di pulizia della casa, ci restituisce alla vita di tutti i giorni, come si usa dire.
Questo modo di intendere il lavoro filosofico, in cui alla contemplazione è subentrato il giudizio e alla beatitudine una sosta ideale prima di riprendere il cammino, ho suggerito di tradurlo nei due momenti (dialettici) del controllo e dell’abbandono con cui si svolge la nostra vita di pensiero e azione, luce e buio. La verità è il momento del controllo di quanto si è fatto e l’abbandono è il momento delle volontà che, più o meno schiarite e cresciute nella luce, creano il mondo. Dov’è lo spazio per la fine del lavoro filosofico, prima vagheggiato, che approda alla beata contemplazione del “mondo vero”? Non c’è più: e non perché il “mondo vero” sia diventato una favola ma perché lo stesso “mondo vero” è un momento della realtà e, in particolare, quel momento in cui la realtà/vita si afferra o si prende per mano per darsi una sistemata e ricomporsi in una ragionevole conoscenza di sé per poi lasciarsi andare alle nuove avventure di azioni ed opere frutto del bisogno di superare i bisogni. Al contrario di quanto avveniva un tempo, è lo stesso concetto del concetto che mostra la continua Tempesta che è la verità stessa e così il desiderio di trovare nel pensiero una stamberga o un albergo o un monastero ideale capace di difenderci dal colpi del secolo e della vita è messo in fuorigioco proprio dal pensiero che della lotta tempestosa è il modo che mostra il controllo e l’abbandono, il pensiero e l’amore.
Il riparo, in cui si accomodano intrufolandosi i nostri egoismi e le nostre illusioni, non è dunque la fine della Tempesta ma solo la forma che prende la sua conoscenza guardando la vita e la storia come in uno spettacolo che ci addolcisce l’animo e ci lenisce il dolore.