di Guido Bianchini
Questa rubrica calcistica è stata inaugurata per il puro piacere di raccontare storie, fatti ed emozioni dentro e fuori, o meglio a latere del rettangolo verde. Dopo 11 giornate senza neanche un punto racimolato l’emozione prevalente è la frustrazione per una scalata già ardua di suo, ma di fatto mai iniziata, ad un terzo di campionato alle spalle. Le parole sono davvero difficili da trovare perché l’amore per i colori giallorossi spinge alla magnanimità, ma l’amor del vero, altrettanto forte per deformazione professionale, invita a non cercare scappatoie, finzioni retoriche ed edulcoranti vari.
Il pericolo in tutto ciò, non è tanto perdere per strada lettori, bisognosi di carezze, illusioni e speranze a buon mercato, ma l’essere ripetitivi e nauseanti nel descrivere il mesto spettacolo di ogni maledetta domenica. Da più parti si anela ad una svolta che ad oggi sembra una chimera. Si è preventivamente demonizzato De Zerbi, dimenticandosi troppo in fretta che l’impresa è a dir poco impossibile ed un solo uomo, fosse anche un mago del pallone alla Herrera, non può risollevare le sorti di una squadra che, a dispetto di avversari in crescita, palesa sempre gli stessi limiti strutturali, la stessa inadeguatezza tecnica ormai evidente anche agli occhi dei più ottimisti.
I primi 20 minuti contro la Lazio sapevano di horror già visto: inerzia totale, errori grossolani, contro un avversario nettamente superiore, tanto da non doversi impegnare più di tanto per mettere il risultato in cassaforte. Se per essere rincuorati bisogna accontentarsi di riuscire a passare la metà campo, allora la gara perde subito di senso e persino i telecronisti di Sky devono far ricorso ad una retorica pietistica per non sparare ulteriormente sulla croce rossa.
A voler persistere nel gioco del bicchiere mezzo pieno, nonostante faccia acqua da tutte le parti, ci sono i 20/25 minuti di vita calcistica, quasi uno spasmo mortifero, tra l’inizio della ripresa, il gol del 3-1 e il nuovo allungo di Parolo. Ad isolarli, per salvare il salvabile, ci si fa ancor più male. I frangenti migliori del Benevento hanno la firma di Amato Ciciretti, uno che già lo scorso aveva mostrato di essere pronto per un’altra categoria, solo che gli spunti del romano erano vanificati da compagni non all’altezza. Proprio quegli elementi che società, ex-allenatore e direttore sportivo hanno valutato e presentato alla piazza come alfieri del salto di categoria, pur sapendo che molti venivano dai cadetti e altri erano “consigli” o prestiti di un prestigiatore del pallone come Claudio Lotito, il quale si sarà fatto non poche risate sotto i baffi nell’assistere all’ennesima umiliazione della sua succursale non dichiarata, per tenere nel giro della A i suoi scarti. Ciò detto, non intendiamo gettare la croce addosso alla rosa. Bastano le proverbiali sudate da capocantiere di Chibsah a testimoniare l’impegno e la fatica di chi veste il giallorosso, sforzi triplicati proprio dall’essere spesso in affanno e a corto di mezzi tecnici adeguati, se non ad offendere, almeno a resistere ai cambi di ritmo avversari.
Se tifare Benevento non è affatto semplice quest’anno, altrettanto lo deve essere scendere in campo, perché, se è vero che il tifoso paga, mentre il calciatore è pagato e bene; lo è altrettanto che dover passare la maggior parte del tempo in balia dell’avversario fa passare per brocchi, con le quotazioni di mercato a picco, quelli che fino all’anno scorso erano onesti mestieranti di B che in A possono fare al massimo qualche scampolo di partita.
Mai come quest’anno c’è un mal comune che non genera neanche mezzo gaudio: la consapevolezza di essere fuori luogo, di essere arrivati impreparati ad una sfida più grande di noi, per cui se i supporter della Strega sono encomiabili nel loro non far mancare il sostegno alla squadra assumono sempre più i connotati della beffa, se non dell’inganno sistematico e premeditato, i proclami auto- assolutori di chi gestisce la società di via Santa Colomba, il quale invece di ammettere la sua stessa inadeguatezza alla categoria, essendo, nel bene e nel male, l’artefice di tutto, continua a gonfiarsi il petto per mostrare stellette e galloni conquistati con merito nelle battaglie precedenti, ma ormai sbiaditi nella desolazione attuale.
Il suo ergersi a guerriero invincibile lo fa assomigliare sempre più ad una parodia venuta male di un vecchio generale prossimo alle pensione che rispolvera i vecchi trionfi per far dimenticare a sé e agli altri le continue batoste presenti. Si è detto che questa squadra, per anni in C, meritava ben altri palcoscenici, ma se ci si trova a dover debuttare nei grandi teatri del calcio italiano non è dignitoso presentarsi in queste condizioni perché ogni partita non può trasformarsi in Corrida, non quella spagnola con i tori, ma quella meno cruenta di Corrado, dove tutta l’Italia rideva di gusto nel vedere dilettanti allo sbaraglio.