di Gennaro Malgieri
E’ stata definita (ingenerosamente) la peggiore squadra d’Europa. Probabilmente non è così e nessuno può fare paragoni, tenendo presente soltanto la massima serie dei campionati continentali, con quanto accade, ad esempio, sui campi di calcio dalle Isole Far Oer alla Macedonia, dall’Islanda a Cipro, dall’ Irlanda del Nord all’Armenia. Vero è, tuttavia, che non ci sono precedenti (almeno dalla consultazione di tutti gli almanacchi a nostra disposizione che non sono pochi) nei tornei che contano ed anche in quelli appena meno noti, di formazioni che dopo nove turni non abbiano collezionato neppure un punto. Il Benevento ha conquistato, a suo disdoro, questo singolare record negativo. Pensavamo che il precedente del Venezia che dopo otto giornate si trovò nella stessa condizione dei giallorossi non potesse essere scalfito: era il 1948. Quasi settant’anni dopo, dolorosamente vediamo quel triste primato azzerato. E se fosse soltanto per la squadra, riusciremmo a farcene una ragione: è pur sempre un gioco, del resto e in tale ambito deve restare si dirà.
E’ così. Ma il calcio è un gioco crudele, come una festa medievale culminante nel confronto cruento tra singoli o gruppi. Oggi, come allora, la sconfitta, la disfatta e l’umiliazione non sono preventivabili nelle dimensioni che possono assumere. E’ soltanto l’esperienza della caduta che può dare il senso del dolore patito. E a Benevento e nel Sannio , in poco più di due mesi, il dolore si è riversato su chiunque abbia investito un po’ d’amore su quella squadra per decenni smarrita, neppure considerata, a volte dimenticata ed improvvisamente sbalzata dal Destino tra le grandi di quello che se non è da tempo il campionato più bello del mondo, certo è uno dei più interessanti ed entusiasmanti. Forse per questo il crollo è più rovinoso e, dunque, fa più male.
Intendiamoci, nessuno credeva che il Benevento di Vigorito e Baroni fosse da Champions League; ma neppure era immaginabile che vestisse i panni di un pugile suonato sul quale si avventa chiunque lo incontri riempiendolo di botte senza che accenni minimamente a difendersi. D’accordo, la “rosa” non è proprio di primo livello, sicuramente neppure da serie A e forse peggiore di quella della scorsa stagione che fece un figurone in serie B. Ma, diamine, fosse pure una squadra della Primavera, non riuscire mai a dimostrare una sana incazzatura per le caterve di gol rimediate è un atteggiamento incomprensibile, mai visto su nessun campo di calcio e neppure nelle palestre di periferia dove si praticano altri sport. Sembra che i calciatori del Benevento vivano con rassegnazione la loro condizione di minorità dalla quale più che non sapere, danno l’impressione che non vogliano uscire, come se fossero convinti che al disegno degli dèi del pallone è inutile opporsi: all’attesa, dunque, del ritorno nella serie cadetta non c’è alternativa. La nottata passerà anche se è ancora lunga e popolata da figuracce che marcheranno la storia della società calcistica al punto che un giorno si dirà delle squadre che per lungo tempo resteranno a digiuno di punti che “fanno come il Benevento”.
Svanita l’euforia della promozione, resta il rimpianto. E ci si chiede con inquietudine: non era meglio farsi un altro anno in serie B per poi puntare decisamente in alto con la consapevolezza che deriva soltanto dall’esperienza? Questa storia dei play off non ci è mai piaciuta. Che logica ha vincere quattro partite, una volta arrivati a otto o nove punti dalla terza classificata, ed ottenere il passaggio in serie A, mentre chi sta davanti neppure di poco ha la disgrazia di incappare in un paio di scontri sfortunati e restare al palo? Merito? Non diciamo sciocchezze. È una delle tante incongruenze che stanno stravolgendo il calcio italiano. Un tempo le prime tre venivano promosse, le ultime tre retrocesse. Semplice e logico. Non era necessario allungare il brodo a beneficio degli introiti televisivi e di un mercato caotico e inutilmente lungo ( praticamente dura tutto l’anno) a detrimento della preparazione, mentre con cinismo non favorisce psicologicamente e atleticamente i giocatori.
Il Benevento è stato vittima e beneficiario di questo balordo sistema. Ne paga le conseguenze come molte altre squadre. Ed i tifosi hanno poco da reclamare se non la mancanza di reattività della formazione che manda in campo Baroni.
Da nobili insegnamenti abbiamo appreso che si può attaccare in dieci e difendere in dieci. Se non si hanno discendenze olandesi è meglio abbandonare la prima ipotesi per sperimentare quella più casereccia del vecchio caro catenaccio. Neppure l’ombra di questa estrema risorsa abbiamo visto in ben nove partite. E allora con chi prendersela? Già. Ha ragione Ciccio Graziani, indimenticabile campione del mondo: “Neanche se ci fosse Mourinho in panchina il Benevento si risolleverebbe”.
Speriamo allora che a nessuno venga in mente di mettere sotto accusa l’allenatore o di rinfacciare al presidente Vigorito scelte tecniche che non sono sue o alle quali è stato costretto dalla borsa piccola e dalla mancanza di “alleati”. Il Benevento è quello che è. Forse qualche punto riuscirà a farlo o forse no. Perdere non è sempre una tragedia. Lo è perdere senza stile, senza un filo di eleganza, senza accennare ad una sia pur fragile resistenza. Questo, i coriacei e sentimentali sanniti, non possono proprio accettarlo. Da nessuno. Figuriamoci da chi ha già pronte le valigie per altre destinazioni e non vede l’ora che questo tormentato campionato finisca.