Su un pomo di cotogno lucente come l’oro Aconzio innamorato incise il giuramento che la bella Cidippe, sacerdotessa al tempio di Artemide, pronunciò, leggendo: “Giuro per Artemide di non sposare altri se non Aconzio”. Un inganno d’amore narrato da Callimaco nel terzo libro della raccolta di elegie Aitia.
Il cotogno è un albero fruttifero antichissimo, la sua coltivazione è fatta risalire al 2000 avanti Cristo, in Asia. Dalle lontane terre di Babilonia si diffuse nel Mediterraneo. Per gli antichi greci i frutti, di colore dorato e dal profumo intenso, erano sacri ad Afrodite, dea della fecondità. Esiodo, ancor prima di Callimaco, narra di come le ninfe, custodi di un giardino incantato, avessero in particolar riguardo un albero che fruttificava pomi color oro. Un melo cotogno secondo l’interpretazione più diffusa.
Del cotogno in realtà esistono due varietà, l’una dà frutti che ricordano la mela, detta appunto mela cotogna, e l’altra che dà frutti periformi, la pera cotogna.
Il melo cotogno è via via scomparso dalle nostre campagne, cedute alle coltivazioni intensive, in quanto i frutti son si belli e aromatici ma poco piacevoli da mangiare crudi.
La mela cotogna, benché spesso citata nelle degustazioni enoiche, evocando alcuni vini il profumo della sua polpa, è nota per le marmellate o per la “cotognata” una sorta di gelatina a base di mela cotogna. Invero, per la scarsa reperibilità anche di questi prodotti della trasformazione, si potrebbe oggi dire che come nell’antica Grecia la mela cotogna è un frutto mitico. Qualcosa che esiste e di cui si sente parlare con ammirazione per il suo profumo ma che di fatto non si è mai vista o provata.
L’albero di cotogno, fortunosamente incontrato durante la vendemmia di qualche giorno fa, si presenta quasi come un arbusto, contorto e confuso. I fiori sono bellissimi, di un delicato candore, mentre i frutti, giallo acceso, si impongono per la loro dimensione sproporzionata rispetto a quella dell’albero e del ramo da cui eruttano. Piombati al suolo formano quella che da lontano appare quasi una pozzanghera dorata ma non brillante, una chiazza di oro antico. La buccia di questo frutto è cosparsa di una sorta di peluria giallo intenso che viene via alla prima carezza.
La mela cotogna è dura e tannica, ricca di acido malico, fibre e polifenoli che le conferiscono un sapore sgradevole nonostante gli abbondanti zuccheri oltre che una durezza ragguardevole. La ricchezza, tra l’altro, in tannini la rende particolarmente astringente. La buccia della mela cotogna e la polpa stessa sono, infine, ricche in pectina, rendendo fattibile senza aggiunta di gelificanti artificiali la famigerata cotognata.
Per effetto del calore la struttura chimica si trasforma e il frutto diviene prelibato, sprigionando dolcezza e aromaticità.
Che sia solo cotta o trasformata in conserve la mela cotogna reca al palato un piacere che completa e rievoca quello della scoperta della pozzanghera dorata ai margini di una vigna oramai rosseggiante, nel pieno di una campagna che inizia a imbrunire per l’arrivo dell’autunno.
Le trasmissioni televisive e le rubriche enogastromiche, come anche Odissea Gastronomica, rischiano di rarefare il piacere del cibo, operando una sorta di alienazione degli alimenti dai luoghi suggestivi in cui gli ingredienti naturali dei nostri alimenti germogliano, fioriscono, vivono. Una passeggiata in campagna, al fianco di un contadino è un esercizio necessario per godere meglio i piaceri del gusto, affatto dissociati da quelli della conoscenza della terra.