di Guido Bianchini
Dopo l’amarissima sconfitta di Crotone avevamo auspicato un azzeramento delle chiacchiere, ma così non è stato, poiché nella settimana di avvicinamento alla gara contro l’Inter abbiamo scoperto che stare in Serie A vuol dire anche saper misurare le parole, tra comunicati, rettifiche e indignazioni e difese a spada tratta, che, amplificate dai media nazionali, hanno dato un’immagine della nostra città ancora più provinciale di ciò che in effetti è. Il calcio sarà pure importante per carità, ma ergerlo a questione di Stato, sangue e territorio, sembra quantomeno eccessivo. Resta sempre uno sport, un gioco si direbbe ed in fondo quando la palla inizia a rotolare nel rettangolo verde annulla tutto ciò che, nel bene e nel male, c’è fuori e al massimo dà il via a più salutari chiacchiere da bar.
Ecco perché, nonostante i risultati non esaltanti, abbiamo atteso la gara di ieri al Vigorito, fiduciosi che il potere terapeutico della dose settimanale di pallone rilassasse gli animi. In effetti gli unici agitati all’ingresso sembravano gli steward addestrati ad evitare possibili tensioni, di fatto, fortunatamente inesistenti. Sugli spalti il momento negativo del Benevento destava ben altre preoccupazioni, ma il tifoso, temprato da anni di lega pro, sa anche come stemperare il tutto, magari rivolgendo le attenzioni del pre-partita alle curve chiacchierate di Wanda Nara o alla svolta cinese delle milanesi. Si è compreso subito che la sfida aveva degli strani connotati “ideologici”, perché da una parte c’è chi sostiene i colori di una squadra espressione di una provincia salita alla ribalta nazionale e chi, già dal nome, esprime un credo cosmopolita che abbraccia idealmente lo Stivale e ultimamente si esprime anche in ideogrammi orientali. Vedere, dopo anni di piccole realtà cittadine seguite dai pallonari della zona, una curva avversaria di una squadra di Milano, esporre striscioni provenienti da località non proprio lombarde come Anzio, Nettuno, Atripalda, fino ai cugini polentoni di Montesarchio, strappava perlomeno una risata.
In campo c’è stato invece poco da ridere. L’Inter ha mostrato tutto il suo momento di difficoltà, in cui molti dei suoi uomini chiave sembravano non essere mentalmente in partita e la solita grinta iniziale dei giallorossi lasciava ben sperare. Tuttavia, come ormai da copione, la concretezza degli avversari rischia sempre di avere la meglio se le buone intenzioni non si concretizzano e se, a dispetto di un Icardi fantasma (forse fiaccato da Wandissima si malignava in curva), il redivivo Brozovic assesta due colpi decisivi. Lo 0-2 sembrava essere il prologo di quanto già visto contro Napoli e Roma, per cui qualcuno già aveva iniziato a tirar fuori la sacca per i palloni. La Stega invece, complice un Inter compassata, reagisce al doppio schiaffo confezionando azioni finalmente pericolose e tra traverse, Var castranti e sforzi encomiabili arriva ad accorciare le distanze con D’Alessando, unico degli undici in campo a poter fare davvero la differenza. È il primo gol in serie A tra le mura amiche e dallo stadio è percepito come manna dal cielo: l’urlo che genera sa di liberazione, di primo tabù sfatato e permette una meritata rivalsa contro quei nostri concittadini mimetizzati in tribuna inferiore, sfacciatamente esultanti per la doppietta del croato. In serie A purtroppo c’è anche questo e dovremo imparare a conviverci con l’arrivo al Vigorito delle multinazionali del pallone. L’effetto benefico di tutto ciò è un tifo ancora più convinto da parte di chi , purtroppo o per fortuna, ha il giallorosso come unica fede e sospinge gli sforzi finalmente convinti di chi lo indossa.
L’ottimismo regna sovrano all’intervallo, quasi che non avessimo di fronte una delle squadre più blasonate del nostro calcio, ma una diretta concorrente e i risultati delle piccole ci fanno riaccendere speranze salvezza, la quale sembra sempre più simile ad una luce intermittente contro il buio pesto.
La ripresa continua sulla falsa riga della chiusura del primo: il Benevento attacca a testa bassa, l’Inter controlla, ma non sembra né cinica in attacco, né invulnerabile in difesa. Sugli spalti salgono i decibel, il pari non è poi così utopico, ma la sorte sembra averci voltato le spalle e quando gli alti ritmi, cui un avversario del genere ti costringe, pur limitandosi al controllo del campo, si iniziano a far sentire la lucidità viene meno e si è assistito più a scorribande individuali di chi pur essendo a riserva vuole gettare il cuore oltre l’ostacolo, che ad azioni corali ponderate.
Gli applausi di fine gara, nonostante la settima sconfitta e l’impietoso zero in classifica, lasciano intendere che la piazza apprezza il cuore della truppa di Baroni, ma anche che in seria A non basta.
Il fatto di avercela giocata con onore contro una grande del campionato è ammirevole, ma lascia anche dell’amaro in bocca. Proprio perché questa Inter è ancora in rodaggio e in via di definizione, con una squadra con lo stesso spirito, ma con mezzi tecnici più adeguati alla categoria avremmo potuto toglierci la soddisfazione dello sgambetto e raccogliere un punto d’oro per la salvezza. Così non è stato e la sosta ci darà tempo utile per ripartire, magari facendo tesoro di questa gara, in cui si è palesato che l’unica arma che il Benevento può giocarsi per ora è la grinta, sperando che quei pochissimi elementi in rosa veramente di categoria riescano a fare la differenza e a tenerci in vita fino al mercato di riparazione, ultimo banco d’appello per fare i necessari innesti degni di tal nome e utili a fuggire l’etichetta di meteora della massima serie.