di Giancristiano Desiderio
Il campionato del Benevento è come l’inferno: lastricato di buone intenzioni. Per salvarsi, però, servono le buone azioni, anche perché – il caso Lucioni insegna – non sembra che ci siano i puri di cuore. Le famose sei partite di Boskov sono state perse tutt’e sei. A suo modo, è pur sempre un’impresa. Tuttavia, è proprio quando non si ha più nulla da perdere che si può giocare meglio. Ma il Benevento qualcosa da perdere ce l’ha ancora: la serietà del gioco.
La classifica, soprattutto nella zona retrocessione, è molto corta. In quattro punti ci sono ben sette squadre: Benevento, Genoa, Hellas Verona, Udinese, Crotone, Spal, Sassuolo. Il campionato del Benevento non è compromesso. E’ appena iniziato. O qualcuno vuol sostenere che dopo sei partite la squadra di Baroni avrebbe dovuto avere dieci punti e il capocannoniere? Certo, vedere e rivedere zero punti fa impressione e non mettere la palla dentro neanche dagli undici metri beneficiando di un calcio di rigore regalato fa rabbia, ma se c’è una regola che va al di là delle regole scritte è proprio questa: bisogna imparare dagli errori. Che il campionato di serie A per un’assoluta matricola come il Benevento sarebbe stato duro lo si immaginava. Ora lo si sa. E la realtà va quasi sempre al di là dell’immaginabile. Ma questo non è un buon motivo né per mollare né per ingiuriare. Al contrario, è un’ottima ragione per sostenere il club giallorosso e capire come giocare dentro e fuori dal campo.
La serie A è arrivata all’improvviso. Come la felicità o, a volte, come la morte. Il Benevento – e Benevento – si è trovato dentro la A non solo senza rendersi conto dove si trovava ma anche senza quella necessaria esperienza che è sempre la madre superiora dalla quale tutti noi apprendiamo. Ora si sente dire che Marco Baroni non è all’altezza e che un cambio in panchina sarebbe cosa giusta. Nessuno è intoccabile e perfino un allenatore che ha portato in un anno una squadra in A (dopo che con Auteri era salita dalla C alla B) può essere messo in discussione: l’ingratitudine umana, si sa, è l’unica cosa che superi la misericordia divina. Tuttavia, una volta cambiato l’allenatore, il legname in cascina resterebbe il medesimo e con quel legno storto – come ogni umanità che si rispetti – bisogna fare i conti e soprattutto fare ciò che si è chiamati a fare quest’anno: quell’esperienza di un campionato di serie A che il Benevento, la sua società e Benevento non hanno non solo mai avuto ma neanche mai sperato. Ecco perché il campionato del Benevento non è soltanto una questione calcistica. Lo si voglia o no.
Il Benevento – la squadra, la società, la tifoseria, la città – deve imparare a stare in campo con maggior compostezza. La frenesia che c’è in campo è la stessa che si avverte fuori dal campo. Il dramma del Benevento non è la sconfitta ma l’idea insolita che il gioco e il campo non diano lezioni sportive e umane che meritino di essere accettate per crescere. E’ come se la cavalcata entusiasmante dalla C alla A avesse privato la vittoria della sua più intima alleata: la caduta. Potrà sembrare strano ma nulla è più serio del gioco e se si gioca si deve accettare l’idea del fallimento che, invece, è stata rimossa. Il Benevento per vincere deve imparare a perdere. Oggi, nonostante gli zero punti, non lo sa fare perché se ne vergogna. Non è il numero delle sconfitte che fa la differenza, ma la necessità della caduta.