di Gennaro Malgieri
Eravamo rimasti ad un sogno di bambino. Il mio. Confidato a mio padre tanti anni fa e liquidato da lui appunto come un sogno, una fantasia, un miraggio e niente di più. Francamente non mi sono mai avventurato, con il passare del tempo, nel credere nell’impossibile (anche se niente è impossibile, come sperimentiamo avanzando nell’età). Eppure quel sogno si è avverato, anzi si sta per materializzare.
Domenica prossima, il Napoli ed il Benevento si affronteranno al San Paolo per contendersi i tre punti in palio. Primo in classifica l’uno, ultimo l’altro. Vorrei vedere la faccia di mio padre, di certo sarebbe contento anche lui. E come me vivrebbe la lacerazione che di giorno in giorno cresce e sta diventando insopportabile.
Non potrebbe essere diversamente, del resto. Ho sempre tifato per il Napoli, ma il Benevento non è soltanto la squadra della città capoluogo del Sannio e, dunque, della mia terra, ma molto di più: rappresenta la sostanza di un sogno antico, il solo, come ho sempre pensato, che potesse proiettare l’angolo nel quale sono custodite le mie origini e le mie memorie su un palcoscenico realisticamente vasto. Ed il calcio, metafora di tante cose e filosofia applicata in tanti casi, come ci ha ricordato in alcuni splendidi saggi Giancristiano Desiderio, è il veicolo di questi tempi per realizzare ambizioni che altrimenti resterebbero chiuse negli ambiti ristretti dei vagheggiamenti più o meno bizzarri.
Bene, allora domenica 17 settembre dell’anno di grazia 2017 (attenzione ai numeri del calendario), che cosa farò, avendo scartato l’idea di recarmi allo stadio (se ci andassi da solo mi sembrerebbe di tradire mio padre e sentirei per novanta minuti il suo rimprovero per averlo lasciato fuori da una festa che lui non avrebbe mai immaginato ci sarebbe stata)? M’incollerò alla televisione e rigorosamente da solo assisterò ad una contesa crudele che, comunque finirà, non potrà che lasciarmi affranto. No, un pareggio non basterebbe a quietarmi.
Il tempo delle neutralità assolute è finito da un pezzo. Carl Schmitt, a cui sono affezionato non meno che a Sivori e a Maradona, non mi perdonerebbe l’abbandono della sua teoria sposata all’epoca in cui nessuno voleva sentirne parlare, ero un ragazzo e la “guerra fredda” riscaldava gli animi.
Quando ci si mettono i sentimenti che si sovrappongono alle memorie, le passioni vacillano e tutto diventa maledettamente complicato. Se il Napoli dovesse soccombere (ipotesi tutt’altro che peregrina dopo lo scandaloso show alla Metalist Arena di Kharkiv contro lo Shakthar Donetsk…) il distacco dalle concorrenti diventerebbe pericoloso soprattutto sotto il profilo psicologico. La formazione di Sarri gioca abbastanza male dopo la duplice vittoria sul Nizza da far temere che qualcosa nell’ingranaggio si sia rotto e purtroppo nessuno, a cominciare dai diretti interessati, capisce che cosa non funzioni più. Se sconfitto fosse il Benevento, è facile immaginare che colmare il gap da zero punti alle squadre che sia pure di poco lo sopravanzano diventerebbe quasi proibitivo. Il baratro della retrocessione si aprirebbe davanti ai giallorossi con un anticipo imprevedibile quattro mesi fa quando fecero l’impresa a dispetto dei pronostici, della storia e dei soliti uccelli del malaugurio che per tutto il campionato mai avevano creduto ad una risalita tanto rapida di chi solo pochi mesi prima iniziava speranzoso, ma tutt’altro che intimidito, il suo cammino nella serie cadetta per la prima volta in ottantasette anni.
Certo, il pareggio, direbbe la ragione. Ma il cuore ha ragioni che la stessa ragione non può comprendere, chiosava Blaise Pascal dall’eremo di Port-Royal. E dunque, il sogno darà luogo ad un pomeriggio ad alto tasso adrenalinico, oltre che di malinconia. Avrei dovuto metterlo in conto quando chiedevo a mio padre se mai un giorno avremmo visto Napoli-Benevento. Se fosse seduto accanto a me mi direbbe che i sognatori sono quasi sempre infelici. Quelli che amano il calcio più degli altri. Ed io, smarrito, come gli risponderei? Mi viene solo un aforisma di Nietzsche: “Anche se non hai più felicità da dare, resta pur sempre il tuo dolore”. E non c’è dono più grande che si possa recare alla passione coltivata con amore per una vita che la sofferenza. Si, avete ragione, sono un vecchio romantico, conservatore per giunta, che non bada a mettere in piazza i propri sentimenti. Fuori dal tempo, fuori da tutto. E per questo che non dirò mai, “sportivamente”, che vinca il migliore.
Vinca anche il peggiore, se è il caso e se gli dèi del pallone vorranno indirizzare nel modo in cui riterranno la partita del San Paolo, comunque finirà di una cosa sarò contento: aver visto, almeno una volta nella vita, la sfida che sognavo. Non è poco al tempo in cui per niente più si sogna ed i sognatori sono i marginali nella società del successo e delle ambizioni effimere.