di Giancristiano Desiderio
Domenico Rea è stato uno dei maggiori scrittori italiani del Novecento e il segreto della sua espressività, nel passaggio che lui stesso segnalò da La figlia di Casimiro Clarus a La Segnorina, risiede nella festa della vita – come la definì Ruggero Guarini – che fu il dopoguerra napoletano che per Rea non fu una delle tante epoche della storia ma la verità della vita con il suo eterno cuore selvaggio e il suo volto terreno, terrestre e feroce. Queste considerazioni, vere e naturali, che Ruggero Guarini veniva facendo intorno all’opera del suo amico Mimì in quel gran saggio che è La sua musa creaturale, che apre il Meridiano dedicato a Rea, mi sono tornate alla mente dopo aver letto – anzi, riletto – quanto lo scrittore di Nofi scrisse sul Sannio selvaggio, lontano, remoto quando ancora non aveva messo al mondo la sua Ninfa plebea. E’ vero quel che dice Goethe e che Guarini ricorda ossia che l’uomo più felice è colui che è in grado di collegare la fine della sua vita col suo inizio. Mimì Rea, dunque, morì felice? Forse sì, visto che Lenuccia – la Segnorina del primo fulminante racconto di Spaccanapoli – si tiene per mano con Miluzza, la ninfa divina e plebea di Ninfa plebea. Morì felice ancor più perché quel romanzo che chiuse la sua opera e la sua vita venne dopo anni di silenzio e quando la voce di Rea si fece risentire sembrava per davvero una musica scesa dal cielo in terra. Ma Domenico Rea dovette essere se non felice senz’altro lieto quando veniva – e capitava spesso – ad esplorare il Sannio, “aspro e selvaggio”, che lo affascinava con la sua mistura di paganesimo e di cristianesimo.
Domenico Rea vedeva nel Sannio una sorta di rifugio, un riparo dove ritirarsi per sfuggire alle scemenze dei tempi e intrattenere ancora rapporti umani con uomini fieri e donne tempestose. Il selvaggio Sannio di Rea è una nazione – proprio così dice – e Benevento che è “il riassunto del Sannio” non va visitata per prima ma per ultima e usata come campo-base per il nuovo e antico mondo da esplorare. Il Sannio di Rea è una geografia che confina con qualcosa di indefinibile e che ha del religioso. Dice: “Bastano i nomi: San Bartolomeo, Sant’Agata, San Lorenzello, San Giorgio, San Leucio, San Marco, Santa Croce, San Salvatore, San Nicola, San Lupo: segnano le tappe di una predicazione a scongiurare i mille peccati sannito-romani e di una devozione in contrasto con la possanza armata di altri nomi come: Durazzano, Arpaia, Apice, Fragneto, Morcone, Montefalcone, Sassinoro, Paupisi, Melizzano, eccetera, che sembrano nomi di guerrieri di prima nomina da poco convertiti al cristianesimo”.
Sembra di vederlo Rea sulle alture sannite e sui resti dei castelli da Tocco a Castelvenere, da Airola a Montesarchio, dal Castello Carafa di Coluvrano di Morcone alla torre di Pontelandolfo, sembra di vederlo svettante nell’intento di possedere quelle terre e penetrare il grumo della loro intimità. Dovette assistere, forse, anche ai Riti settennali di Guardia perché dice che “se si va a Siviglia e a Procida per i riti della semana santa non si capisce perché non ci si reca a Guardia Sanframondi per scrutare un comportamento che nel suo acme teatrale e nei suoi crescenti di spasimo impone delle verifiche e una rimessa in discussione del nostro rapporto con divinità esigenti”. Ne è trascorso di tempo e oggi, chissà, vedendo la gran folla che farà passare in un giorno e una notte Guardia da cinquemila anime a oltre centomila corpi, Rea magari sarebbe di avviso avverso. E della mia benedetta e maledetta Sant’Agata dei Goti cosa dice? “La stessa preoccupazione che si prova a Sant’Agata dei Goti, una città misterica. Attraversarla significa diventare personaggi di un affresco perché a Sant’Agata, nel suo colore bruciato, nelle sue vie in fuga, si respira come l’essenza di un fato, che è cristiano con frange pagane”.
Lo scrittore descrisse il Sannio per un viaggio turistico in Campania e non esitò a dire che in realtà il Sannio – identificato qui con la provincia beneventana – non è Campania, non è Puglia, non è Molise ma una zona limite, un passaggio di frontiera dal quale si entra in un altro mondo in cui sembra dominare prima di tutto il silenzio e la natura ha un che di medievale e intervalla le distanze da un paese o villaggio all’altro, così che ogni volta che si giunge in paese sembra una conquista buzzatiana da Deserto dei Tartari. Qualcosa, forse, è cambiato ma se provate a mettervi in auto e attraversate le colline e le curve che da San Lupo conducono a Pontelandolfo o vi inoltrate nel Fortore per spingervi a San Bartolomeo in Galdo, beh, sentirete ancora il silenzio della natura e vi sovverrà l’eterno e le morte stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei.
Questo Sannio selvaggio e aspro e forte come un selva o una belva che nel pensiero rinnova la paura prese Domenico Rea più della sua storia e dell’addolcimento della natura che inevitabilmente ne deriva. Pur nella natura da reportage dello scritto si avverte che Rea fu attratto da un Sannio sannita, amaro, forte come uno spirto guerriero che, in fondo, si sentiva ruggire nel profondo della sua anima. E avrebbe voluto incontrare le pastorelle, “ma chissà ora dove sono”, e si dovette accontentare dei santi e delle leggende. Della stessa Benevento – anseatica, avignonese, romantica – sospesa nella sua valle, tra il Sabato e il Calore, come un’ala immensa, calata nel silenzio, con il vento che entra nelle ossa, Rea sente il lato da sfinge che lo porta a ripensare per intero la vita.