di Guido Bianchini
La prima cosa che mi viene in mente dicendo smart non è tanto un telefonino di ultima generazione, lo smart-phone, quanto la celebre vettura. La Smart, fonte di ispirazione per il mondo neomelodico e non, è l’auto compatta, maneggevole, facile da parcheggiare e con la quale sgusciare nel traffico cittadino. Sembra l’ideale per la guida nei grandi centri ed ha avuto il suo boom tanto da aspirare ad essere la 500 del nuovo millennio. Presenta tuttavia dei limiti strutturali, l’abitacolo è piccolo, non è adatta ai grandi spostamenti, ha un costo eccessivo in rapporto alla cilindrata, in caso di incidente rende il malcapitato poco meno di una sottiletta e, giusto per chiudere l’elenco col sorriso,credo sia poco adatta anche per farci all’amore (a meno che non siate contorsionisti come la buon anima del Califfo il quale si vantava di aver sperimentato con successo almeno 50 posizioni ad hoc).
Questo piccolo inciso, più adatto a Quattro Ruote che a Sanniopress, serve ad illustrare, per analogia, il nuovo modello di Smart presto in circolazione: la smart school che il Miur intende introdurre come una solerte casa automobilistica, forse inconsapevole, o peggio, non paga dei fallimenti precedenti. L’idea almeno sulla carta sarebbe una scuola più compatta e veloce, proprio come una Smart, che riduce il cursus di un anno, aumentando però le ore giornaliere e le attività pomeridiane. La logica, molto alla Totò, è quella della somma che fa il totale: si caricano gli studenti di maggiore didattica per immetterli sul mercato un anno prima. Già il fatto che l’unità di misura sia il computo delle ore e non la qualità delle stesse è il primo indicatore di un’idea di scuola sempre più aziendalista e sempre meno formatrice. Senza passare per nostalgici fuori dal tempo, sarebbe interessante capire la struttura aziendale. In un mondo sempre più attento al biologico, alla cura lenta del prodotto, contro le logiche della grande distribuzione, l’azienda che “produce” gli uomini del domani, vira verso la rapidità, verso l’inscatolamento veloce di nozioni da presentare con l’etichetta a breve scadenza nel banco frigo del presunto mercato del lavoro. Studenti da policoltura da cui trarre più uova o limoni da spremere in fretta nella speranza di trarne più succo. L’obbiezione è presto fatta: il mondo di oggi è veloce, richiede tempi ristretti e in questo modo i ragazzi vi arrivano già allenati. Tutto vero. Il mondo di oggi è votato al fast and forious, per questo la scuola rappresenta, o almeno dovrebbe rappresentare, l’ultima sacca di resistenza. Non si tratta di un banale elogio della lentezza, ma di educare i giovani al vivere la fatica del crescere, il sacrificio della riflessione, la quale per definizione richiede tempo ed esercizio, i cui frutti non sono tanto quei numeri riduttivi in pagella, ma l’abitudine alla costanza da applicare a qualsiasi lavoro, a meno che non si immagini un mondo fatto solo di personaggi arricchiti col niente, un mondo di Briatori e Balotelli o di Chiare Ferragni, buoni solo per le riviste da parrucchiere.
A quanto pare però la smart school non punta a questo, pensa a stare al passo con l’Europa, con più ore dedicate alle lingue straniere e ai viaggi d’istruzione. La prima idea non è originale, ma necessaria come l’aria o l’acqua. Essere europei, è quasi ridicolo doverlo dire, vuole lire essere in grado di saper abitare e comunicare all’interno del Vecchio continente e oltre, per cui colmare questa pecca del sistema italiano (trascinatasi fino alle università dove spesso è richiesto solo un banale esame di idoneità linguistica), è sacrosanto, magari rivedendo l’articolazione delle ore in un ottica più cosmopolita, ma ciò non significa che gli studenti debbano passare più ore a scuola che a casa. Ogni anno si assiste a polemiche di ogni ordine e grado sui famigerati compiti a casa, ma sembra sfuggire ai più la valenza formativa degli stessi soprattutto per il prosieguo degli studi. L’università, al di là delle favolette da telefilm studenteschi americani, si concretizza con ore di studio solitario a tutte le ore e a tutte le temperature, per cui è molto meglio arrivarci allenati. Sulla valenza formativa del viaggio si potrebbero scomodare scrittori poeti e persino cantanti, ma il viaggio di istruzione, la classica e bramata gita, non è l’Erasmus. Non si può credere che scorrazzando periodicamente per l’Europa si diventi cittadini del mondo, perché, come dimostrano proprio i programmi di intercambio, per vivere un’altra nazione c’è bisogno di tempi lungi e vita quotidiano, no dell’attraversamento gitano da gitanti. Le gite servono a rinforzare lo spirito di classe a conoscere i propri compagni e i propri docenti al di fuori dell’ambiente spesso troppo restrittivo e circostanziato della scuola, per cui nonostante le mille peripezie organizzative, il luogo è sempre stato in secondo piano e girare di meno non mai peggiorato nessuno. Se proprio si volesse imitare l’Europa si dovrebbe lavorare sul rapporto scuola- lavoro, non con inutili progettini di alternanza, ma riformando il lavoro stesso affinchè possa accogliere al meglio quel che di buono la scuola è ancora in grado, seppur con fatica nella mediocrità imperante, di tirare fuori dagli allievi. Restando sul solo versante scolastico, perché il discorso ci porterebbe troppo lontano, il pericolo grande è quello che la riduzione dei tempi non comporti nessun sostanziale miglioramento del sistema , anzi inoculi soltanto il demone della velocità in ragazzi già troppo precoci in tutto, già tendenti a sentirsi uomini e donne finite, in virtù di un desiderio di fare ed avere tutto e subito. Una macchina desiderante continua destinata ad incepparsi, magari a causa della costatazione che il nido scolastico e i suoi confort sono stati abbandonati troppo presto, soltanto per la foga , avallata da uno Stato in pessimo stato, di lanciarsi con un anno di anticipo nel baratro del mondo del lavoro o in quella vasca di squali e piragna chiamata università. E alla fine gli studenti smart, al pari degli automobilisti con la Smart, potrebbero rendersi conto che con le cose smart si va veloci, ma non si arriva molto lontano e alla prima botta presa, si spera non fatale, si potrebbe essere colti sul rammarico di non aver scelto un’auto degna di tal nome, piuttosto che una scatoletta di Simmental con quattro ruote.