di Giancristiano Desiderio
Il mondo è il frutto delle nostre volontà e dei nostri giudizi più di quanto lo stesso Schopenhauer, con la cecità della sua Volontà cruda verde e fatale, non riuscì a immaginare e pensare. Tuttavia, c’è un elemento fatalistico che non possiamo rimuovere senza essere disonesti. Pur con tutto il sapere sofistico e organizzato di cui disponiamo con le scienze sociali e sperimentali, alla fine la conoscenza vera alla quale tutti ricorriamo nella nostra esistenza è il giudizio con il quale l’essere è qualificato. Il giudizio è legato intimamente alla vitalità fino ad esserne la sua espressione. Siamo caverne pensanti.
Voi potete spaccarvi la testa sulla metafisica occidentale – anche se è meglio buttarsi in acqua – o farvi un culo di pietra ma alla fine della giostra non potete far altro che sapere che il sapere è l’espressione del giudizio in cui l’essere distinto dal non si rivela nella sua differenza che chiede di essere detta. Non pensiate che si tratti di poca cosa perché costa fatica giungere all’idea che la conoscenza è la giustificazione della storia e costa ancora maggior sforzo perché il lavoro concettuale, legato com’è alla vita indemoniata, non è fatto una volta per sempre ma sempre per una volta e chiede di essere ripetuto finche la vita è vita e non morte. E’ la stessa metafisica che ci porta fuori dalla metafisica cambiando semplicemente il contenuto del nostro pensiero che per i Greci è eidos e per i Moderni è storia.
Una volta in un luogo lontano lontano nel tempo, come una canzone di Luigi Tenco, nell’universo senza fine e senza senso, su una stella morta, degli uomini, animali intelligenti, inventarono la conoscenza. Che cosa strana è la conoscenza! Fu quello il minuto più presuntuoso e più bugiardo della storia del mondo e della storia umana. Ma fu un minuto, magari un minuto di secoli e millenni, ma nulla più. La stella, già morta da tempo, si spense definitivamente fino a rapprendersi e gli animali intelligenti, con tutta la loro conoscenza, furono risucchiati nel buio del nulla. Quante volte sarà accaduta questa strana storia che colpì Nietzsche nel 1873 e gli fece vedere la verità come una esercito di metafore in movimento, come illusioni di cui si è dimenticato che sono illusioni. Il guaio della nostra conoscenza è da un lato la presunzione e dall’altro l’illusione scientifica. La presunzione ci fa credere di poter avere il mondo in pugno, l’illusione ci fa ritenere che il mondo possa essere racchiuso in una formula e la natura possa essere ridotta ad una funzione regolabile. Mentre la conoscenza – quella che a noi più preme come esseri vitali e morali – è semplicemente la qualificazione ad opera del giudizio con la quale rispondiamo soprattutto alla domanda “Come devo vivere?”, “Cosa devo fare?”. L’idea di trasportare queste domande sul piano della scienza e usare il suo metodo logico-sperimentale per rispondere – cosa che comunemente si fa con le scienze sociali – è la Grande Illusione che la tempestosa condizione umana, legata al laborioso regno delle madri, s’incarica ogni volta di mandare all’aria consegnandoci al nostro destino che è una mistura di fatalità e libertà.
La conoscenza è davvero una cosa strana e bizzarra perché si pensa che ci debba mostrare un mondo vero, una sorta di immagine che dovrebbe prendere forma davanti ai nostri occhi sbalorditi che assistono allo spettacolo della verità come si assiste alla proiezione di un film. Ma quella proiezione è solo il gioco delle ombre nel fondo della caverna. Perché mai la verità si dovrebbe replicare in un mondo vero, sia esso morale o naturale? Come diceva Max Stirner – forse il filosofo più odiato e più trascurato della storia del pensiero, non a caso – io non aspiro alla verità perché per me essa è già accaduta, è già certa, è un alimento della mente come la patata lo è per lo stomaco e la donna lo è per il mio cuore che ama la sua compagnia. La verità non è la replica di se stessa in un mondo vero o in un io vero che s’impanca e mi domina e mi vuole suo servo. La verità è la mia stessa libertà che mi concede la grazia del pensiero e dell’azione, dell’errore e della colpa. Il mio cuore aspira a questa verità libera e ha imparato, errando, che la verità è un momento della vita in cui la vita si tuffa per pulirsi e per ritornare a sporcarsi. Quando cerca la verità, il tuo cuore cosa cerca? Un signore! Ma così non cerchi la libertà ma un potente da rendere più potente dandogli in servitù te stesso. Nella verità c’è un gioco di potenza e di impotenza che non tutti sopportano e non sopportandolo preferiscono trasferirlo in un dio, in una chiesa, in uno stato, in un partito o, come più spesso e meno pericolosamente accade, in una mania.
Nel circolo della nostra esperienza, che mette a tema la Caverna che siamo o la Selva che abitiamo, la verità o la conoscenza è il modo che i mortali hanno per stare al mondo. La verità altro non è, dunque, che un predicato ricavato dalla nostra vitalità per qualificare noi stessi e il mondo e viverlo fino a quando la nostra stessa forza vitale ci farà la grazia di conservarci al mondo (conservazione che, a conti fatti, non sempre è cara e in casi estremi è meglio che ci sia concesso di uscire di scena anzitempo).
Io sono il mortale creatore di me stesso, la mia causa è fondata su nulla.