di Giancristiano Desiderio
Drang, drang, aprì la porta.
Entrò in casa e si trovò la moglie davanti con lo scolapasta in mano pieno di pasta appena scolata e gocciolante.
“Disgraziato. A quest’ora torni. Dove sei stato?”
Barcollava, mezzo ubriaco com’era. Non ebbe il tempo di rispondere – “Rose’, stavo da Carmela ‘a zuzzo’…- che gli arrivarono prima i vermicelli in faccia e a seguire immediatamente il condimento: un pacchero sulla guancia destra che lo mandò a sinistra, un secondo pacchero sulla guancia sinistra che lo raddrizzò – “Rose’, ma che ti piglia”.
“Mi piglia che ti piglio a mazziate, questo mi piglia” e giù schiaffi. Il poveraccio non opponeva resistenza, cadde sulle ginocchia, come per chiedere perdono alla moglie, a lui stesso, al Padreterno e all’anima innocente del povero Linuccio, e la moglie come indemoniata lo colpiva in testa e sulle spalle: “Non ce la faccio più, nun cià facc chiuu’ ‘u vuo’ capi’” e lo colpiva mentre piangeva. Antonio si prendeva tutti i paccheri che arrivavano come dal cielo sui vermicelli che aveva in testa come un atto di dolore e ad ogni colpo si sentiva più leggero, come sgravato dai peccati, dagli incubi e dalle colpe che credeva d’avere. La moglie fece un’ultima scaricata di schiaffi, era stravolta, stanca, esasperata. Stava per andar via, tornò indietro, prese lo scolapasta e glielo mise in testa. Lo guardò: “Lo vuoi sapere? Sei cornuto. Ah! Sì, curnut!!”.
Non era vero. Antonio e Rosetta avevano passato una vita insieme. I giochi, la scuola, le scoperte, il fidanzamento, il matrimonio, i figli. Una vita bella e felice. Lui muratore, alzava le case che aveva costruito mezza Sant’Agata, lei a casa ci viveva e faceva figli. Tre femmine e un maschio. L’ultimo, che non veniva mai. Arrivò e Antonio non stava più nella pelle. Quell’anno fece tre case, una più bella dell’altra e regalò a Rosa un anello grande come un bocciolo. Linuccio era un piccolo re. Un giorno andarono a Napoli. Prima a mare e poi a mangiare a Mergellina. Tornarono e il giorno dopo Linuccio non stava bene. Febbre. Una strana febbre gialla. “Non è niente Rose’, mo’ passa”. Non passava. Il terzo giorno venne il medico. Fece una brutta faccia. “E’ colera, mi dispiace”. Il quinto giorno Linuccio era al camposanto.
Tutto cambiò. Le case non si alzavano più. Antonio rimaneva a letto giornate intere. Rosetta dovette prendere a lavorare come donna di servizio. Le tre ragazze, già grandicelle, una più bella dell’altra – Viola, Alba e Wanda – dovevano studiare e servivano soldi. Antonio tornò sui cantieri ma inutilmente. Era senza forze, svuotato, depresso e ripeteva a se stesso: “E’ colpa mia, colpa mia, solo colpa mia”. Lo disse pure a don Carmine, nel confessionale: “La colpa è mia, li volevo portare a mare ma so’ troppo ignorante. Non lo sapevo che a Napoli c’era il colera. Devo scontare tutto, don Carmine. Ditemi che devo fare”. Il prete provò a farlo ragionare, a dargli forza: “Pensa a quelle belle figlie che tieni, devi lavorare per loro”. Non ci fu verso.
Fu allora che iniziò a bere. Andava alla cantina di Carmela ‘a zuzzosa che era zuzzosa un po’ perché era sporca e un po’ per i servizi che faceva. Da mezzogiorno a mezzanotte salutava sant’Alfonso che lo guardava storto e si infilava nella cantina. Si sedeva e aspettava gli amici. Chiunque entrasse diceva: “Tras’ e assettat’”. Così iniziarono a chiamarlo Antonio trase e assettat. Faceva coppia con Peppino pane e vino che si abbuffava di pane e si scolava un fiasco al giorno e con Carluccio ‘o pisciato – così detto perché si scotoliava addosso – facevano “il terno secco sulla ruota di Bari”, come li sfotteva ‘a zuzzosa. In quel tugurio ci passavano le giornate intere. Ci facevano di tutto: mangiavano, bevevano, giocavano e sentivano le storie incredibili che raccontava Peppino pane e vino che per le favole che buttava fuori sembrava che avesse avuto cinquanta vite: una per ogni primavera. Una volta strologava sulle sue avventure da marinaio, un’altra volta sulla sua vita a Cinecittà – “ho fatto la comparsa per i film di Fillini”, “Fellini, pane e vino, Fellini” gli diceva Fiamma, la figlia della zuzzosa – un’altra volta la sparava grossa sulla sue qualità di ricercatore di funghi: “Insomma, ne ho raccolti così tanti che mia moglie ha fatto mille boccacci sott’olio”. Le sparava grosse perché gli piaceva tenere banco e far ridere gli amici, soprattutto Antonio trase e assettat: “Anto’, tu devi ridere, perché se ridi quello Linuccio tuo sta in braccio alla Madonna e ti protegge”. Ma non c’era niente da fare. Antonio non rideva. Ascoltava, si faceva un sorrisino ma non rideva. Ogni tanto si guardava a Fiamma che non era una ragazza ma una vampata di calore, così femmina che quando passava davanti al bancone le bottiglie di birra di stappavano da sole.
L’ultima storia di pane e vino fu davvero incredibile. Una delizia. Raccontò di essere andato a caccia e di aver sparato senza beccare niente. Mentre stava ritornando a mani vuote accadde il fatto: “Io me ne stavo andando, ero quasi arrivato quando davanti a me vidi un fagiano su un albero e una lepre sotto. Non credevo ai miei occhi”. “Nemmeno noi” disse ‘o pisciato. “Allora mi fermai e presi il fucile ma tenevo un solo colpo. E come aggia fa e come nun aggia fa, mi avvicinai chiano chiano e sparai facendo con il fucile un movimento così, da sopra a sotto. Uagliu’, con un solo colpo aggiu’ pigliat a tutte e due e mia moglie sabato ha fatto la lepre e domenica il fagiano”. Nella cantina non si capì più niente. I vecchi, gli operai con le birre in mano, i giovani di passaggio che stavano lì per il fuoco di Fiamma, insomma, il pubblico di Peppino pane e vino scoppiò a ridere e a dimenarsi, Carmela ‘a zuzzosa rideva con le zizze in mano, Carluccio ‘o pisciato un altro poco sveniva e tanto per cambiare si pisciò addosso.
Solo Antonio trase e assettat non rideva. Peppino lo guardava ammutolito, lo spingeva sulla sedia per solleticarlo ma niente da fare. Fu allora che pane e vino ebbe la bella idea di raccontarne ancora un’altra. Questa volta, però, cambiò protagonista: “Uagliu’, uagliu’, mo’ ve ne conto una di Trase e assettat, bella fresca fresca, dell’altro giorno quando ha pigliato i paccheri da Rosetta”.
“Ah no – a quel punto intervenne Antonio trase e assettat – no! ‘O paliatone aggiu’ avut io e ‘o fatt’ ‘o cont’ io (il paliatone l’ho avuto io e il fatto lo racconto io). E scoppiò a ridere per la contentezza di pane e vino e di tutti gli amici, mentre dietro il bancone si sentivano i tappi di birra e gassosa che saltavano al passaggio di Fiamma.