di Giancristiano Desiderio
Sono tre i fatti che spiegano perché Matteo Renzi ha fatto la fine che ha fatto. Il primo: ha commesso lo stesso errore che commise anche il suo nemico Massimo D’Alema: ha fatto le scarpe a Enrico Letta – D’Alema le fece a Prodi – ed è andato a Palazzo Chigi senza passare per le urne. Il secondo: ha promesso ciò che sapeva di non poter mantenere ossia serie riforme economiche e sociali. Le annunciò nel discorso alla Camera dove parlò a braccio e con le mani in tasca proponendo agli italiani questo scambio: facciamo i sacrifici con le riforme economiche e sociali ma per dimostrarvi che faccio sul serio riformo anche le istituzioni abolendo il Senato e chiedendo sacrifici prima di tutto alla classe politica. Il terzo: dopo pochi mesi vinse le elezioni europee con lo storico 40 per cento e cominciò a credere alle sue stesse illusioni.
La situazione era oggettivamente difficile ma oggi sappiamo che Renzi è riuscito a renderla ancora più difficile. Un buon politico – ma vale per tutti – è colui che impara dai propri errori. Renzi si è sempre rifiutato di farlo in omaggio al dogma più idiota di questi stupidi tempi: la coerenza. Per essere veramente coerenti bisogna saper leggere il mondo reale e cambiarne l’interpretazione quando questa si mostra ormai fallace e insufficiente. Purtroppo, nel mondo politico italiano invece di cambiare le idee si camuffano i fatti, così Renzi invece di prendere atto che la crescita economica non c’era e che la riforma costituzionale era solo un pasticcio che generava la rivolta parlamentare senza creare consenso sociale ha continuato sulla stessa strada coltivando l’illusione che il controllo assoluto del Pd lo avrebbe alla fine comunque garantito. Il voto del referendum non solo lo ha mandato a casa ma ha messo in luce i suoi vistosi limiti a capire il Paese.
Una volta a casa, Renzi invece di coltivare il giardino ha coltivato il rancore. La sua strategia politica è diventata la vendetta. E ha fatto l’unica cosa che gli è riuscita nella sua carriera politica: ha vinto nuovamente le primarie. Ma, come diceva un toscano più intelligente di Renzi, Giovanni Sartori, “questi vincono le primarie e perdono le secondarie”. La regola di Sartori si applica alla perfezione anche per Renzi che ormai va alle urne con la stessa baldanza con cui il povero Gentilucci salì sul patibolo di Mastro Titta. L’unica sua arma è il controllo del partito ma è un’arma scarica o un controllo sterile perché ormai non è più utile al suo principale scopo: vincere le elezioni politiche. Anzi, mentre nella sua apparizione sulla scena politica Renzi era il rottamatore che scalava il partito e lo usava per riformare la stessa politica, oggi Renzi si identifica con il partito e non ha alcun valore aggiunto ed extra-partitico. Il suo partito si è addirittura meridionalizzato in omaggio a quelle clientele e a quei localismi contro i quali voleva usare nientemeno che il lanciafiamme.
Le ultime elezioni amministrative confermano Renzi nella sua ferma coerenza dell’errore. Ormai, somiglia a quel tale di cui Flaiano disse che l’insuccesso gli aveva dato alla testa.