di Giancristiano Desiderio
Viviamo giorni di ristagno economico e stanchezza morale, ma anche il tempo della sottovalutazione dell’albicocca. E non è detto che le due cose non siano connesse. Sarà che la stagione dell’albicocca vien dopo la ciliegia e immediatamente prima delle pesche, quando la primavera non è più primavera e l’estate non è ancora estate; sarà che le cosiddette percoche, pesche e albicocche, finiscono in succhi e marmellate e conserve, sarà che il tempo delle mele è finito da una vita, sta di fatto che l’albicocca è presa sottogamba. Non dico che non sia buona e che non piaccia, questo no; però, è indubbio che non sia più ormai da tempo un “frutto proibito” e vuoi per l’Abbondanza, vuoi perché si sprecano, per risollevare le sorti dell’albicocca, vittima del suo stesso succoso successo, ci vorrebbe un Albicocca Pride, da farsi naturalmente in campagna tra prugne e susine e fiche selvagge.
Gli Squallor dimostrarono di aver capito tutto o quasi quando pubblicarono Tocca l’albicocca: un successone. Oggi la loro sfrontatezza fa tenerezza. A differenza di altri frutti, l’albicocca è fatta per essere toccata e aperta. L’apertura dell’albicocca è al di là del bene e del male. La sua femminilità è vera come una puttana o una madre.
Eppure non è stato sempre così. C’è stato un tempo in cui per avere un’albicocca dovevi andare a mietere il grano – come intonavano tutti in coro la domenica pomeriggio dagli spalti del campo sportivo di Sant’Agata dei Goti – e c’era sempre il rischio che dopo la mietitura si andasse a raccogliere palloni, altro che albicocche. Doveva essere lo stesso tempo – decennio più, decennio meno – della famosa moria delle vacche di Totò e Peppino, come voi ben sapete. Ricordo che una volta, con gli amici della solita banda di scarpa sciolta, ci intrufolammo in un ricchissimo frutteto di albicocche, così grande da perderci il fiato. C’erano albicocche ovunque, sugli alberi, a terra e nelle ceste stracolme che braccianti anneriti dal sole e dalla fatica riempivano come la bocca del leone. In mezzo a quelle piante cariche di frutta e su quella terra arida e polverosa arsa dal sole ci facemmo un’ora di notte con un’albicocca che andava e una che veniva, così una dietro l’altra fino alla gioia dello schifo.
Sul più bello ecco la sottovalutazione dell’albicocca. Gli operai ci scoprirono e per difenderci la sparammo grossa: “Veramente siamo qui per raccogliere le albicocche”. Ci presero in parola. Così ci ritrovammo sotto il sole cocente di un mese di giugno tutto luce e giovinezza a raccogliere le albicocche con le ceste per poi in spalla caricarle sui carri. Una bella giornata di insolenza e di fatica che a sera fu ricompensata dalla meritata e sorprendente paga giornaliera.
In quei campi straziati dal sole incontrai una ragazza della quale non seppi mai né allora né dopo il nome. Aveva solo una canottiera bianca sulla pelle d’oro. Coglieva un’albicocca e la mostrava. “Toccala” disse. E iniziò l’estate.