di Amerigo Ciervo
Nel 1647 viveva, nella terra di Moiano, in assoluta povertà, Andrea de Ciervo, un povero cristo, mio lontanissimo antenato; a Napoli, a rappresentare il trono spagnolo, era arrivato il vicerè Rodrigo Ponce de León, duca d’Arcos, frivolo e amante della vita mondana che, in meno che non si dica, pensò bene di aumentare la gabella sulla frutta, creando le condizioni per lo scoppio, nella capitale del vicereame, della brevissima rivolta di Masaniello, durata lo spazio d’un mattino. Ricostruendo velocemente tutti i passaggi, da quella data, il mio “villaggio della memoria” è stato, in rapidissima successione, dentro un vicereame austriaco, divenuto via via regno borbonico, repubblica partenopea, di nuovo regno borbonico, regno napoleonico (con Giuseppe Bonaparte prima e Gioacchino Murat dopo), ancora regno borbonico (detto, stavolta, “delle due Sicilie”), regno d’Italia nel 1861 e, dal 1946, repubblica italiana. Dal vecchio Andrea, a Moiano, si sono susseguiti una lunghissima serie di Ciervo fino a giungere a chi sta scrivendo queste righe. Benevento, viceversa, come ben si sa, fino all’autunno 1860, è stata, per più di sette secoli, un’enclave pontificia. Fu un giro di compasso a definirne, in una notte, i confini provinciali, con porzioni territoriali ricavate dai vecchi distretti del regno di Napoli: Terra di Lavoro, Principato Ultra, Contado del Molise, Capitanata.
Si capirà, da questo rapidissimo elenco – ho evitato, per non tediare, la millenaria storia precedente – quanto sia sostanzialmente inutile parlare, come si sta facendo, in questi giorni di festa e di legittima soddisfazione, per l’approdo alla massima serie del Benevento calcio, di “orgoglio che deve rinascere” o di “identità”. Questa parola, peraltro, è diventata, da qualche tempo, una delle più utilizzate – e anche inflazionate – con una serie di conseguenze, sul piano, prima di tutto culturale e poi politico- sociale, che a molti di noi non piacciono punto. Certo, l’identità culturale di un popolo è basato sulla sua cultura, ossia – secondo quanto definito dall’Unesco – “sull’insieme degli aspetti spirituali, materiali, intellettuali ed emozionali, unici nel loro genere, che contraddistinguono una società e un gruppo sociale”. Ciò significa che non valgono solo arte e letteratura, ma anche i modi di vita, i sistemi di valori, i diritti fondamentali degli esseri umani, le tradizioni, i miti e le credenze. Non solo Paladino, quindi, ma anche il cardone, le janare, i mazzamaurielli e la festa della Madonna delle Grazie. Ciò significa che le diversità culturali dei popoli, al pari della diversità biologica degli esseri viventi, vanno tutelate, come una delle ricchezze più preziose che gli umani hanno prodotto. Ma la cultura, in questo senso, è sempre qualcosa in divenire. E’ il risultato di incrostazioni, di depositi, di sedimentazioni, di addizioni e di sottrazioni. Oggi, ma non da oggi, noi siamo tutti felicemente meticci. Personalmente, non rinuncerei, per nulla al mondo, a questa fortunatissima condizione di meticciato. Sotto questo aspetto, Napoli è uno straordinario paradigma. Assorbente e porosa, come il tufo su cui è stata costruita, di quanto arriva dall’esterno tutto acchiappa e include, metabolizza e trasforma in qualcosa di unico, che, attraverso i secoli – da Basile a De Simone, da Vico a Croce, passando per Giannone, da Felippo Sgruttendio a Salvatore Di Giacomo, da Giordano Bruno a Genovesi e Filangieri, da Gesualdo da Venosa a Pino Daniele, da Pulecenella Citrulo a Totò, dai De Filippo a Troisi e Moscato, da Rosi a Sorrentino -, acquista un valore universalmente riconosciuto, in grado tuttavia di conservare, dentro di sé, uno stigma non riconducibile ad altra realtà che non sia la Neapolis che i greci fondarono, alle falde del Vesuvio, nell’VIII secolo a. C. Sicché chi pensasse di erigere muri, che chiudano al mondo, si convinca presto che suo destino è l’inevitabile perire. E ciò vale, seppure in misura minore, per le motivazioni storiche a cui si faceva riferimento, anche per Benevento e per la sua realtà provinciale. Nelle curve degli stadi si sta, da qualche decennio, sviluppando questa tendenza a collegare la famigerata identità ai colori calcistici. Ora, se in tali luoghi, dove con più vigore vengono innalzati i vessilli di queste presunte identità, la cosa servisse solo per sfottersi e divertirsi, non sarebbe neppure il caso di affrontare il tema. Ma i cori che si ascoltano settimanalmente e la lettura dei social, specie in questi giorni in cui il sacro fuoco identitario viene tenuto vivo e attizzato da vestali improvvisate, ci fa capire che le cose non si muovono solo sul versante dello sfottò. Non c’è dubbio che il calcio, al di là dei movimenti economici che genera, rappresenti oggi una delle “sovrastrutture” più consolidate della società in cui viviamo. Ma sarebbe davvero il caso di non esagerare. Da questo punto di vista, la questione è se sia possibile ipotizzare una differenza radicale – ripeto: una differenza radicale – tra le coste e le realtà interne della nostra regione politico-amministrativo, così come storicamente delimitata dalle molteplici scelte politiche. Per quanto mi riguarda, abbiamo lavorato, mio fratello e io, una quarantina d’anni perché volevamo definire le differenze musicali tra la Campania infelix e la grande madre musicale Partenope. In Valle caudina, negli anni settanta del Novecento, la tammurriata era ancora quella di Madonna dell’Arco, mentre bisognava avventurarsi verso l’alto Tammaro per riscoprire il salterello. Ma i canti di lavoro erano gli stessi, perché, per la mietitura del grano, in Puglia, i braccianti stagionali vi giungevano da tutto il regno. E così pure le storie religiose, i cunti e le serenate amorose.
Non nascondo il mio tifo per il Napoli, lo esibisco senza vergognarmi. Ne sono addirittura orgoglioso. E neppure nascondo che, la sera di giovedì otto giugno, vedendo in TV la partita del Benevento con il Carpi, mi sono emozionato fino alla commozione. Ma, asciugate le lacrime di gioia, è interessante notare, però, come la domanda per chi si tiferà, negli scontri diretti, venga rivolta essenzialmente ai tifosi del Napoli. Secondo me, porre ora la questione delle radici è una vera contraddizione in termini. Quando l’abbiamo posta noi, ai tifosi delle squadre del Nord, la medesima questione, c’è stato sempre risposto che lo sport non risponde a queste logiche. Dovremo concludere che l’identità, per alcuni, è intermittente, come le lucette dell’albero di Natale. Ma, in fondo, il calcio è bello proprio per l’irrazionalità delle emozioni. Il mio augurio è di potercelo preservare a lungo, questo granello di emozione irrazionale.