di Guido Bianchini
L’uomo per fortuna non è solo un essere pensante, oltre alle sue facoltà razionali ha fantasia e immaginazione che lo aiutano a sognare. Per farlo però ci vuole una base, degli elementi reali che combinati tra loro costruiscono un mondo “altro”, da sogno appunto, da cui i Freud di ieri e di oggi traggono curiose interpretazioni e gli impiegati del lotto qualche terno forse vincente.
A queste latitudini è difficile sognare individualmente, perché, senza tirare in ballo l’annosa questione meridionale, le opportunità sono davvero poche per chi voglia progettare per sé un futuro diverso dal perpetrarsi paludato della vita di provincia. Bisogna scontrarsi con la dura realtà, contro la quale i sogni spesso si ridimensionano quando non si infrangono, oppure bisogna coltivarli altrove, sradicarsi per poi far ritorno o con altri cocci onirici, o con il piglio nostalgico del turista di passaggio. Una prospettiva non certo idilliaca il cui antidoto, i maligni lo chiamerebbero anestetico, migliore sarebbe un qualcosa che, di tanto in tanto, abbia la capacità di far tornare tutti bambini, gli unici ancora capaci di passare la maggior parte del tempo a sognare. Questo farmaco dolce e amaro a Benevento, come in tutte le piccole realtà dello Stivale, si chiama calcio. A voler essere precisi si chiama pallone, perché non bisogna aver letto Borges o Soriano per capire che ne è l’elemento base, senza il quale il calcio non avrebbe letteralmente storia. È il cerchio imperfetto che dà il la ai sogni e, tra Sabato e Calore, dà anche colori precisi, infuocati e vivi: il giallo e il rosso che combinati insieme provocano dipendenza sin da piccoli, fino a trasformarsi in malattia congenita.
Alla trasmissione del virus provvedono spesso i nonni e genitori, i quali ridiventano bambini e catapultano i loro eredi al Meomartini, parlando della San Vito e dei primi passi incerti dello Sporting (un nome che sa di sogni latini). Un’epica avvincente fatta di molti eroi omerici con in comune un tallone d’Achille: non essere mai riusciti ad andare mai oltre la terza serie. È allora che i sogni si trasformano in ossessioni, rasentano l’incubo e dopo tante, decisamente troppe, delusioni cocenti, l’iniziale della tua squadra e della tua città diventano impronunciabili e sembrano invitare tutti, persino i più idealisti, a smettere di sognare e il pensiero che il calcio sia peggiore di quella realtà da cui permette, o forse solo promette, di evadere inizia tormentare le estati sannite. Poi d’improvviso arriva una strana primavera di fine aprile, in cui un ragazzo nero, ma con addosso i colori del sogno, di nome Karamoko, come fosse un personaggio di Spike Lee ispirato a Malcom X, si fa tutto il campo e libera il Sannio dalla sua schiavitù calcistica.
Da lì è iniziata un’annata surreale, dove ogni gara sembrava un regalo del destino o di un dio giocherellone che vuole insegnare come si sogna davvero, come si costruisce una simbiosi unica tra squadra e tifosi che può farti arrivare in alto, fino ad illuderti che il sogno non sia finito. C’è voluta una perdita di quota per evitare le vertigini, ma era ancora presto per diventare grandi. Bisognava liberarsi dall’ultima ossessione: i play off. Troppe volte in piena estate abbiamo salito i gradoni a fatica, abbattuti dal caldo, dall’afa e dalla paura di non farcela per l’ennesima volta. Un tiepido maggio e l’incornata di un bomber chiamato “belva”, perché è riuscito a incarnare l’atavica fame di una terra in cui il calcio è da sempre il miglior companatico, ha aperto le porte per una gita di fine campionato, un piacevole dessert dopo una stagione molto saporita.
Nessuno, neanche i più ottimisti, avevano però compreso che, a dispetto di una piazza già paga, Baroni aveva aperto un campo solare dove insegnare a dei bimbi cresciuti, vestiti di giallorosso, e a chi li ama a sognare ancora più in grande. Un sogno realizzato dalla zampata di un certo Puscas, che ha poco in comune con la stella ungherese, ma sembrava voler dire ad un’intera città: “Io voglio tornare A Inter con questa maglia, ci A…ndiamo insieme?
Caro George, dacci solo il tempo di capire che non è più un sogno, che a Inter, a Milan e persino a Juventus possiamo andarci davvero, in fondo siamo solo dei bimbi di tutte le età che non hanno ancora imparato a sognare, ma non vogliono smettere.