Con palesi citazioni di architettura palladiana, l’architetto Francesco Muttoni in principio del XVIII secolo progettò Villa la Favorita, cosiddetta dal toponimo della contrada del comune di Sarego ove la dimora nobiliare fu edificata, su commissione della famiglia da Porto.
Uno scenografico viale alberato sale dolcemente al vertice della collina e conduce ai piedi del prospetto principale della villa, issata su una piattaforma posta al termine di una bella scalinata. Lo sguardo corre sulle campagne vitate sino ad essere spezzato, in lontananza, qua e la, da capannoni di oscena, rigida geometria industriale.
Si anticipa già alla vista la contrapposizione tra la rassegna Vinnatur, ospitata nella villa di stile palladiano, e quella che si anima lungo le vie asfaltate e i capannoni della fiera di Verona (Vinitaly). Anche il pubblico risulta divaricato tra una folla di giovani vocianti, curiosi, friendly dressed e grisaglie ambulanti su scarpe ancor profumate di cromatina, cravatte, penne, listini, borse, business lunch. Vignaioli autodefiniti naturali che con qualche contraddizione, qualche furberia e diffusa buona volontà provano a produrre vino in equilibrio con la natura rifuggendo ogni procedimento tecnico moderno, vignaioli e basta che provano a produrre vino buono utilizzando la tecnica per quel che può essere utile, nei limiti posti dalle leggi.
Ciò che conta, alla fine, sono le storie dei vignaioli che raccontano un vino prima ancora di berlo. Il vino è un unicum col vignaiolo, se questi ha da raccontare, il vino racconterà, se il vignaiolo è un indifferente, il vino sarà, al più, tecnicamente ineccepibile ma resterà muto.
Luigia Zucchi ha tanto da dire. È la titolare dell’azienda che prende il nome, nella declinazione dialettale, del grande rovere, Rugrà, sempreverde che domina l masseria ed il suo logo. Donna di passione, durante una sua esperienza di Amministratore comunale si rintana negli archivi per cercare notizie sull’uva che tra Novi Ligure e Ovada era storicamente la meglio pagata ed è tuttora coltivata. Le ricerche e gli approfondimenti scientifici oltre che storico-geografici hanno consentito di individuare questa uva, da sempre chiamata NIBIÖ, come biotipo territoriale del Dolcetto. Un dolcetto dal raspo rosso da cui si trae un vino di sanguigno, di gran corpo e bella armonia, ben disposto ad invecchiare. Le spigolosità dei molto più rinomati dolcetto di Dogliani e di Alba, caratterizzati da tannicità e amarostico finale difficili da domare, restano ammorbidite e risultano quasi carezzevoli nel nibiö. Mdesimo vitigno, biotitpo diverso, vino con caratteristiche sue proprie che rendono davvero giustificata la richiesta di una denominazione specifica per la quale si batte l’associazione Terra del Nibiö. In attesa che la battaglia di autonomia termini con un successo, gli associati si son dati un proprio disciplinare.
Già Mario Soldati, siamo costretti ancora a citarlo, del resto, scriveva nel 1975 “Il vitigno è lo stesso del Dolcetto delle Langhe … è una varietà a peduncolo rosso … detto zampa di pernice perché ricorda la zampa della pernice rossa. Il vino non ha veramente nulla del Dolcetto delle Langhe”.
La affascinante e infaticabile Luigia ne ha ben donde nel rivendicare un riconoscimento per il suo Nibiö, che per le difficoltà di coltivazione e le basse rese rischia di estinguersi.
E’ vero, per un verso, che i bevitori autentici prescindono dalle denominazioni, limitandosi ad apprezzare il gusto e la tipicità; non si vive, però, del solo vino venduto agli esperti bevitori e la denominazione, pur con tutte le contraddizioni imposte da burocrazie e corruttele, almeno serve a veicolare verso i meglio disposti la cultura e la tipicità dei territori.
In bocca al lupo alla Terra del Nibiö.