di Giancristiano Desiderio
Raffaele Delcogliano aveva un sosia che gli evitò un’aggressione ma non gli salvò la vita. Il capo della squadra mobile di Benevento alla fine degli anni Settanta era Attilio Tranquillo e somigliava vagamente a Raffaele Delcogliano, così quando un tale, che era arrabbiato per la mancata assegnazione di una casa, si trovò davanti il poliziotto lo scambiò per il politico e lo affrontò in malo modo. Fu proprio Raffaele Delcogliano a ricordare l’episodio quando il giornalista de Il Mattino, e suo amico, Enrico Marra, gli chiese se si sentiva in pericolo: “Questa è gente molto bene informata – disse l’assessore regionale della Democrazia cristiana al suo amico -. Se vogliono ammazzarti, lo fanno comunque. Non bastano auto blindate e pistole per proteggerti. E poi, Enrico, quando è il momento ci sarà un sosia che mi toglierà dai guai”. Così il colloquio finì con una risata tra amici. Era la natura di Raffaele Delcogliano: sdrammatizzava e tendeva a non riversare preoccupazioni e ansie su amici e familiari. Il sosia non ci fu e lui sapeva di trovarsi in una situazione difficile e rischiosa. I circa sei mesi da assessore al Lavoro nella seconda giunta De Feo alla Regione Campania, dalla “fine” del sequestro di Ciro Cirillo all’assassinio di Delcogliano, furono vissuti pericolosamente.
Nelle ultime settimane Raffaele Delcogliano ripeteva: “Sono seduto su una polveriera”. Non si riferiva ai terroristi delle Brigate rosse ma a tutto quel mondo politico, clientelare e camorristico che ruotava intorno ai tanti soldi dei corsi di formazione che lui, il nuovo assessore al Lavoro, in poco tempo riformò con una legge che arrivò sulle scrivanie dei dirigenti della Regione proprio quando i terroristi sparavano con i mitragliatori a via Marina. La sera del 26 aprile 1982 Raffaele Delcogliano era a Pietrelcina per una cena con il sindaco di Benevento, Antonio Pietrantonio, ed altri amici di partito. In quella occasione disse: “Ma per favore, figuriamoci se le Brigate rosse pensano proprio a me. E chi sono io?”. La cena si prolungò. Il sindaco e l’assessore andarono via insieme e alle 3 di notte passeggiando si salutarono su viale Atlantici all’altezza di via Perinetto dove abitava Delcogliano. Sei ore dopo su viale Atlantici c’era la brigatista Maria Russo che aveva il compito di avvistare l’Alfetta di Delcogliano guidata dal suo autista e amico Aldo Iermano e telefonare a Napoli dalla cabina telefonica che vi era sotto i pini per dire: “Ho conservato due fustini, o pacchi, di detersivo”. I due fustini erano Raffaele e Aldo e gli assassini a Napoli dovevano sapere di prepararsi per un duplice omicidio. Così fu: il gruppo di fuoco dei terroristi composto da Stoccoro, Manna, Anna Cotone e Natalia Ligas – quest’ultima una delle più fanatiche ed efferate brigatiste – si avviò verso via Marina. L’Alfetta giunse poco dopo le 10 e fu bloccata dalla 128 guidata da Stoccoro. La Ligas e Manna dal marciapiedi si avvicinarono per sparare – secondo la ricostruzione dello stesso Emilio Manna – ma alla Ligas si inceppò il fucile e allora s’inserì Anna Cotone che a sua volta sparò.
La tragica storia di Raffaele Delcogliano è scritta in maniera magistrale da Luigi Grimaldi nel libro Il patto infame (editore Melampo). Il giornalista sannita, che lavora da oltre vent’anni al quotidiano di Verona L’Arena, con un testo scrupoloso e documentato non solo ha scritto un libro-inchiesta ma con rattenuta partecipazione e con ragione storica ha praticato un esercizio di civiltà che mi sento di additare come esempio di professionalità a quanti nella provincia di Benevento hanno in animo di intraprendere il mestiere di giornalista. Luigi Grimaldi ricostruisce da una parte i sette anni di vita politica del giovane democristiano di Benevento, dalle origini in consiglio comunale fino alla sostituzione di Roberto Costanzo alla Regione, e dall’altra mette insieme i pezzi del mosaico criminale della colonna napoletana, terroristica e infame, delle Brigate rosse dalla decisione di Adriana Faranda di fondare un gruppo eversivo per il Mezzogiorno al criminologo e criminale Giovanni Senzani che diede alla colonna napoletana una natura movimentista e guerrigliera passando per Vittorio Bolognese, Antonio Chiocchi, Sergio Palermo, Roberto Marrone e Alessio Casimirri, detto Camillo, con Salvatore Ricciardi, detto Spartaco. La colonna napoletana, che raggruppò le espressioni più estreme dei movimenti marxisti-leninisti, fu l’ultima ad arrendersi nella sciagurata storia delle Brigate rosse. Leggendo il libro di Grimaldi si comprende come la vita di Raffaele Delcogliano – con quelle dei suoi collaboratori, quindi Aldo Iermano – fu come inseguita e ingabbiata dalla volontà di potenza dei brigatisti che una lettura troppo frettolosa liquida come folli mentre furono il prodotto di una infelice cultura politica che per toppo tempo evitò di riconoscere nei terroristi il proprio “album di famiglia” perché essa stessa nutriva in sé la mala pianta totalitaria che generò i mostri.
L’agguato mortale all’Alfetta ci fu il 27 aprile 1982. Lo stesso giorno in cui l’anno prima fu sequestrato Ciro Cirillo. Ma fu solo un caso. I brigatisti provarono ad uccidere Raffaele Delcogliano almeno una decina di volte, in due mesi di appostamenti. Ogni volta, però, c’era qualcosa che andava storto e qualche terrorista che si tirava indietro. Il caso più significativo fu quello di Mauro Acanfora che nell’agguato aveva il compito di bloccare l’Alfetta ma che il 6 marzo durante l’agguato “era impietrito” e non mosse la sua auto di un millimetro facendo passare l’Alfetta, mentre per il tentativo del 9 marzo non ci fu proprio perché il giorno prima fu arrestato. La polizia ricevette “una strana telefonata” che segnalava la presenza di Acanfora alla stazione dei Campi Flegrei a Fuorigrotta e così fu arrestato. Ma perché “strana” la telefonata? Perché, forse, fu lo stesso Acanfora a farla, come fu lo stesso terrorista a dire molte cose sui suoi complici e sul covo di vicolo Sant’Antonio Abate, nel quale fu trovata anche la mappa dell’agguato. Tuttavia, Acanfora disse e non disse o disse alludendo ma con certezza non disse l’unica cosa che avrebbe potuto dire se già in quei giorni si sentiva fuori dalle Brigate rosse: “Salvate Delcogliano”. Invece, niente.
La colonna infame, dal canto suo, nonostante i tanti agguati andati a vuoto e nonostante le tante defezioni – due telefonisti e un componente del commando: Fedele, Marsicovetere, Acanfora – e nonostante un clima di sbandamento e smobilitazione che si avvertiva ormai nell’aria perseguì ancora il suo scopo. Perché? E’ qui che si inserisce quel “patto infame” che dà il titolo al libro ossia un rapporto perverso tra terroristi e camorra per eliminare l’assessore che con la sua “riforma del lavoro” aveva di fatto cambiato le regole dei corsi di formazione e voleva che si aprisse una seria indagine giudiziaria sul fiume di denaro che andava ad alimentare direttamente la criminalità organizzata. I contatti certi tra terrorismo e camorra ci sono in due indagini: il sequestro Cirillo, con l’interessamento di Raffaele Cutolo per sbloccare la vicenda; e, poi, gli omicidi del capo della squadra mobile Antonio Ammaturo e dell’agente Pasquale Paola, avvenuti dopo l’agguato a Delcogliano e Iermano, quando i terroristi furono aiutati a scappare. Il patto infame ci fu? Possibile che l’agguato di via Marina, tante volte provato e tante volte fallito, fu prima accantonato e poi ripreso per – come dice l’inchiesta di Luigi Grimaldi – “fare un favore alla camorra?”. La domanda, senza nuovi fatti e riscontri, è destinata a rimanere senza risposta. Però, un elemento sicuro pur esiste: il rilascio di Cirillo e il destino di Delcogliano sono legati con un doppio filo. La camorra garantì la liberazione di Cirillo – furono accolte le richieste dei brigatisti e fu pagato un riscatto di un miliardo e mezzo – e negli stessi giorni il nome di Raffaele Delcogliano era messo, ancor prima che diventasse assessore, nel mirino dei terroristi.