di Giancristiano Desiderio
A volte, quando non abbiamo nulla da fare e ci abbandoniamo all’indolenza e alla pigrizia, ci sorprendiamo a pensare che se non avessimo fatto quella tal cosa o se non avessimo conosciuto quel tale o quella donna la nostra vita ora sarebbe diversa e, magari, avremmo raggiunto meglio i nostri obiettivi un tempo agognati. Ma, appunto, sono solo pensieri pigri che ci fa comodo formulare perché non è solo la Storia che non si fa ossia non si conosce con i “se” e con i “ma”, è anche la nostra biografia, la storia di noi stessi – per quel che può essere realmente interessante conoscere – che non si fa con i “se” e con i “ma” giacché se siamo ciò che siamo lo dobbiamo proprio a quegli incontri, alle azioni, agli sbagli e alle cose per come sono effettivamente andate, mentre un “noi stessi” sempre uguale a se stesso, eterno e necessario, intorno al quale far ruotare il mondo non esiste neanche nei nostri sogni. Allora, tutto ciò che è stato ed è e sarà è frutto della necessità? La libertà è illusione?
La libertà, nelle condizioni date dalle circostanze, è la manifestazione più concreta della nostra esistenza. Ciò che è stato è un suo frutto e poteva – certo – anche essere diverso da come è, tuttavia ciò che ora posso conoscere è solo ciò che è realmente accaduto: il fatto giacché i non-fatti si immaginano ma non si conoscono. E’ proprio questa conoscenza del passato che ci sgrava del peso che portiamo sulle spalle – le confusioni, le oscurità, i fantasmi, gli equivoci, le incomprensioni – e ci consegna al presente e al futuro ossia alle nuove creazioni della vita da vivere. Sono proprio le nostre continue volizioni che creano la storia e, in fondo – e dal fondo stesso della nostra vita al quale diamo forma e dal quale siamo persino vissuti -, ognuno di noi è un creatore di storia con azioni, fatti, prodotti, opere che sono nostre e non sono nostre, sono nostre e non sono più nostre una volta venute al mondo. Questa operosità della vita, che a volte assume la coscienza di se stessa e della sua linea d’ombra, dovrebbe prendere le sembianze di un abito morale, di una vocazione, del lavoro della vita. Noi cosa siamo se non le nostre opere? Grandi o piccole o minime che siano, noi per quel che siamo altro non siamo che le nostre opere, i nostri atti, le nostre esperienze delle quali ci nutriamo e che ci cambiano nella continuità storica. O, forse, davvero pensiamo che siamo ciò che diciamo di voler fare ma non facciamo: le illusioni, i propositi e gli spropositi, i colloqui e gli sproloqui, le chiacchiere, le millanterie, i “si dice”, le intenzioni, gli psicologismi?
Benedetto Croce ha sempre ritenuto che l’arte sia espressione e ha tenuto fermo questo concetto fondamentale: tanto si intuisce ed altrettanto si esprime. Può sembrare un paradosso, soprattutto perché non pochi sostengono di intuire molto ma di non essere in grado di esprimersi e, in fondo in fondo, si legge nell’Estetica una bella “Madonna di Raffaello, si crede, avrebbe potuto immaginarla chiunque; ma Raffaello è stato Raffaello per l’abilità meccanica di averla fissata sulla tela” mentre gli altri artisti pur sentendo e intuendo e avendo tutto un mondo dentro di sé non lo esprimono perché non hanno perizia tecnica. Ma se così fosse non si capirebbe più cosa sia effettivamente arte e, in verità, ai nostri giorni è proprio così e ogni stupidaggine e ogni trastullo e ogni “installazione” diventa opera d’arte mentre è solo una mera intenzione, un conato, un aggregato o chissà cos’altro. Così, poi, è per il pensare che equivale al giudicare e al distinguere i fatti e non certo ad astrarre, tipizzare e correre dietro a logicismi e tassonomie; e proprio perché si pensa distinguendo fatti, pensare è fatica da facchino e non passatempo da tuttologo: il giudizio deve avere un suo storico contenuto col quale si fa spesso a pugni. Anche la politica e l’economia devono essere atti ben compiuti, netti, asciutti, non sterili intenzioni, non schemi di comodo e, soprattutto, devono soppiantare l’eterna tentazione della retorica e della propaganda. La stessa concretezza deve connotare l’azione morale che non è un altruismo vuoto e generico rivolto ad un mondo perfetto inesistente ma un’azione reale che depone l’egoismo individuale e fa spazio all’umanità accrescendo la libertà in cui gli uomini effettivamente si riconoscono uguali. La vita di un uomo – grande o umile che sia, e la umiltà è proprio degli uomini grandi – è in sé questa vita fatta di opere in cui ogni atto è suo e non lo è proprio perché si realizza a partire dalla madre terra e dalla relazione che è la storia. Vita e opera sono l’unione dell’uomo col mondo perché realizzare o lavorare significa proprio essere al mondo, essere in relazione o comunione con la nostra stessa alterità.
In questa operosità spirituale che appartiene al mondo umano noi nutriamo un’illusione: guidare il corso degli eventi o sapere in quale direzione va il mondo. Ma è solo un’illusione che, però, nel recente passato è stata una presunzione fatale – il convincimento di avere un sapere superiore e infallibile capace di pacificare l’umanità con se stessa – che ha ridotto l’uomo in schiavitù fino ad annientare l’umano. Invece, è nel migliore dei casi proprio solo un’illusione e la cosa più seria che possiamo fare è “solo” governare la nostra navicella per adempiere i nostri doveri. Le parole finali della Storia d’Europa andrebbero scolpite nel bronzo e nell’anima perché sono proprio la nostra anima, anche quando la rifiutiamo: “Lavorate secondo la linea che qui vi è segnata, con tutto voi stessi, ogni giorno, ogni ora, in ogni vostro atto; e lasciate fare alla divina provvidenza, che ne sa più di noi singoli e lavora con noi, dentro di noi e sopra di noi. – Parole come queste, che abbiamo apprese e pronunciate sovente nella nostra educazione e vita cristiana, hanno il loro luogo, come altre della stessa origine, nella “religione della libertà”.
La “religione della libertà” è la “religione delle opere” in cui la vita stessa è diventata un lavoro e l’umanità è creatrice di se stessa. Un mondo così inteso può far spavento e si può essere tentati dal ritrarsi per nutrire il desiderio di vagheggiare un altro mondo come di un felice giardino e come una ricompensa per la buona condotta o per l’ultimo pentimento oppure volere un altro mondo come un rifugio o un riparo dalla furia di questo unico mondo sensibile che è noto alla nostra esperienza. Ma è proprio così? Non è, invece, questo mondo, proprio questo mondo, questa nostra umanissima condizione così mondana e così terrena – terrestre – ciò che vogliamo con tutto noi stessi, con la nostra individualità, le nostre passioni, i nostri amori, i nostri errori? Non vogliamo né sorrisi angelici né canti celesti, ma i sorrisi delle persone amate con i loro stessi vizi e le loro manie. Altra via, dunque, non c’è se non quella di vivere e di addentrarci in questo mondo, in questa aiuola che ci fa feroci e buoni, in questo mondo sublunare, in questa bella famiglia d’erbe e di animali con tutti i suoi pericoli che sono possibilità, con tutti i suoi mali che sono vitalità, con tutti i suoi dolori che sono le angosce che ora ci abbattono e ora ci spingono alla gioia redentrice. La religione delle opere è una continua attività educatrice in cui è la stessa operosità a custodire la libertà alla quale tutti gli uomini di buona volontà possono innalzarsi.