di Giancristiano Desiderio
Il corso di Solopaca, la lunga e ampia strada che collega il centro del paese con il Ponte Maria Cristina, ancora non c’era nel 1869 ma aveva già un nome: corso Stefano Cusani. Il filosofo era morto oltre vent’anni prima, il 4 gennaio del 1846 a Napoli, e non fece in tempo a ritrovarsi sulle barricate della rivoluzione del 1848, come il suo amico Francesco De Sanctis disse di Leopardi, ma la sua vita, il suo pensiero e la sua morte lasciarono negli amici e nei contemporanei un tale ricordo di affetti e di grandezza che il comune di Solopaca “rinfrancato di libertà” giustamente decise di intitolargli la “sua maggior via” affinché dal nome dell’uomo “di studi e di virtù” la cittadinanza ne traesse esempio per “onorare la patria”, come recita l’epitaffio del 1875.
Morì giovane, giovanissimo Stefano Cusani, era nato trent’anni addietro, la vigilia di Natale del 1815. Ma la morte come lo colse così lo fece bello. Aveva frequentato la scuola di Basilio Puoti e aveva avuto come amici Bertrando Spaventa, Francesco De Sanctis, Antonio Tari, Camillo De Meis e tra il 1843 e il 1844, con l’amico Stanislao Gatti, vincendo le ultime resistenze del padre Filippo che lo voleva avvocato per una più tranquilla vita di possidente tra Solopaca e Napoli, aprì nella capitale del Regno una scuola di filosofia e la rivista “Museo di letteratura e filosofia”. Leggeva Platone in greco e Hegel in tedesco, scriveva sulle principali riviste del tempo nitidi saggi di filosofia idealistica secondo una linea di pensiero che è all’origine della maggiore filosofia italiana ed europea dell’Ottocento e del Novecento che avrebbe avuto in Gentile e in Croce i suoi eredi e vertici. Quando nel 1845 Ferdinando II diede il suo benestare al VII Congresso degli scienziati italiani anche Stefano Cusani era della partita. Alla metà di ottobre di quell’anno, il filosofo solopachese era nella sua terra d’origine con la famiglia: aveva sposato Teresa Marcarelli e aveva due figli, un maschio, Filippo, e una femmina, Concetta o Ernesta. Dovette correre a Napoli a rotta di collo e lì giunto, sceso dalla carrozza, proseguì a piedi per prendere la parola nella sezione tecnologica e parlò con tale passione e tanto ardore che – come scrisse il suo discepolo Domenico Giella – “da tutta la persona grondava onorato sudore” e dopo quattro ore di dibattito “il sudore gli si asciugò sulle membra e di qui gli venne la morte”. Quella morte destò impressione e scalpore. Cinquant’anni dopo il fratello Emidio, in un profilo biografico, scrisse che “quel sudore lo aveva già colpito a morte”. Giovane, intelligente, spinto dal pensiero verso la libertà della patria, non si risparmiò e consacrò tutto se stesso restando per sempre giovane e bello: “Anima benedetta – continuava così ad onorarlo e inseguirlo il suo allievo -, e non ti bastava l’esserti già tutto consacrato al culto della scienza, che per la sua difesa volesti da buon soldato lasciarci anco la vita sulla gloriosa palestra”.
Quasi centocinquanta anni dopo, il comune di Solopaca è ritornato sui suoi passi costituendo un Comitato per celebrare il filosofo a duecento anni dalla nascita. Il frutto del lavoro è la pubblicazione di un testo intitolato semplicemente Scritti che raccoglie le tante “pagine sparse” di Stefano Cusani. Un servigio reso agli studi e ai bendisposti verso essi giacché rintracciare saggi, articoli, versi di Cusani non è mai stato facile. Marco Diamanti, che introduce il testo, mette in luce tutta la modernità di Cusani e mostra come il pensiero di Bertrando Spaventa, il maggior interprete italiano di Hegel nel secolo decimonono, metta a frutto proprio il lavoro del filosofo di Solopaca che seppe interpretare Kant senza cadere nuovamente all’indietro, cioè nell’empirismo o nel razionalismo, perché “se ben si ponga mente nella critica della ragion pura, all’opinione del Kant, quanto alla teorica dell’idea rappresentativa, non si potrà non iscorgere ch’egli invece d’appigliarsi ad essa, la combatte, rifermandosi nell’opposto parere che ne fa un atto dello Spirito umano e delle sue facoltà”. Dove è chiaro da queste righe Della scienza fenomenologica e dello studio de’ fatti di coscienza che Cusani afferra il cuore della filosofia moderna e lo fa vivere ancora secondo il nuovo concetto dell’esperienza come atto spirituale che già Giambattista Vico, anticipando i tedeschi, aveva offerto agli italiani e agli europei come modello di vita nova. Lo fece dibattendo con le idee e gli uomini del suo tempo, criticando innanzitutto Pasquale Galluppi che, appunto, era tra quelli che criticavano Kant ricadendo all’indietro piuttosto che spingersi in avanti e ripensare il concetto di esperienza o di verità come storia. Eppure, tutte le critiche e le teorie si possono anche mettere da banda e far cadere perché ciò che conta è che in Stefano Cusani, come nei suoi amici e compagni di strada che studiavano il pensiero europeo e avevano in mente l’Italia, il pensiero si fece vita nel persuasivo convincimento che la filosofia sia bisogno ed occasione di libertà di vita morale. Il filosofo di Solopaca non è solo uno studioso dell’Ottocento, ma un nostro fratello, un italiano che con il sudore della fronte ha indicato una via – metodo, metodos – sulla quale ci piace sentirci ancora in cammino perché davvero, come scrisse Cesare Correnti, “in lui brillò un pensiero di vita non peritura”.