di Giancristiano Desiderio
Le case che un tempo furono abitate e vive e ora sono deserte e mute hanno qualcosa di strano e straniero. Ma se sono visitate da chi le abitò riprendono vita pur restando disabitate e vuote. Salendo la strada che mena a Torrecuso e gira a Foglianise passo innanzi ad un’antica casa colonica che ora è chiusa e sola e assolata in mezzo alla terra e un tempo era aperta e accogliente nella campagna circostante. Ogni volta che vi passo davanti in automobile sento le voci che mi inseguono e gli occhi che mi scrutano: lì, ormai molti anni fa, riunivano tutta la famiglia fino alla settima generazione zio Claudio e zia Maria e mentre i grandi mangiavano la pasta al forno e bevevano il vino del Cavalier Falluto, noi piccoli e grandicelli giravamo la casa e la campagna alla scoperta degli anni verdi e delle favole belle. E’ come se quel pranzo di un giorno lontano, lontano nel tempo – come la voce di Luigi Tenco che canta da un altro mondo – fosse ancora in corso e io stesso e un altro me stesso fossimo qui e lì e ci guardassimo come in uno specchio. La casa, che era dei nonni materni di zia Maria, funse da riparo durante la guerra per nonna Consiglia e le sue due bimbe: Maria, appunto, e Sara. Il nome di origine ebraica della bimba e lo stesso cognome autentico ma equivoco della famiglia, Tedesco, risultavano pericolosi, così mentre nonno Mario era in Africa, la sua famiglia salvava la pelle nella casa in collina della campagna di Torrecuso. Sarà anche per questo che lo stesso nome di Torrecuso mi è sempre stato caro.
Nonno Mario e nonna Consiglia non sono miei nonni ma di Marinetta, figlia di zio Claudio e zia Maria. Ma i suoi nonni li ho sempre sentiti anche un po’ miei, come lei, Marinetta, ha sempre sentito i miei nonni, Michele e Iana, un po’ suoi. Come se nonno Giovanni e nonna Antonietta, che sono i comuni nonni paterni, ci avessero indicato e donato una famiglia più grande. Nonna Consiglia la ricordo ancora con quella sua nuvola di capelli bianchi, buona e paciosa, mentre l’immagine di nonno Mario mi trema nella mente e ricordo ciò che diceva mio padre: “Il dottore Tedesco era sempre chino sui libri”. Era medico e filantropo, nacque a Torrecuso e lì si sposò e lavorò per un certo tempo abitando nelle stanze del castello. La medicina per il dottor Mario Tedesco, che in Africa, anche come prigioniero, imparò ad operare in tutte le condizioni, le più disperate ed estreme, era vocazione e missione. La vita lo portò via da Torrecuso e con la famiglia andò prima a Foiano Valfortore per poi approdare negli anni Cinquanta a Sant’Agata dei Goti. La morte lo ha ricondotto a Torrecuso dove riposa insieme con nonna Consiglia.
A Torrecuso nel 1929, subito dopo il suo ultimo discorso in Senato contro i Patti Lateranensi, si recò Benedetto Croce per far visita alla famiglia Frangiosa in occasione del battesimo del figlioletto di Cleonice Fusco sorella del povero Antonio Fusco che per Croce era come un figlio che perse nel disastroso terremoto di Messina del 1908. Ho raccontato quella storica giornata più volte ma, forse, non ho mai detto che fu proprio grazie a zia Maria se fui accolto come uno di famiglia da Delia Frangiosa che mi aprì la casa, i ricordi, il cuore. Delia Frangiosa – nipote diretta di Antonio Fusco – che mi ha donato carte, documenti, fotografie lavorò a casa Croce e di quella storica giornata del 6 giugno 1929 era l’ultima testimone. Sulla facciata della casa dei Frangiosa che ospitò il filosofo è da poco stata scoperta la targa in marmo che ricorda quella giornata: a togliere il velo fu Aniello Cimitile, presidente della Provincia di Benevento, che discusse in quella stessa circostanza la mia biografia Vita intellettuale e affettiva di Benedetto Croce mentre a pochi passi da noi c’era il busto pietroso di Antonio Fusco le cui opere di critica letteraria andrebbero riprese, ripubblicate e, soprattutto, studiate.
I paesi nostri mi riempiono la mente di ricordi, uomini e cose e avvenimenti della vecchia e nuova Italia fino a disegnare nel mio animo una geografia sentimentale del Sannio. La cosa accade in modo spontaneo e naturale. Quando dirigevo il quotidiano Il Sannio la mia preoccupazione era soprattutto quella di legare tra loro i paesi e le loro epoche in una storia più grande come la storia dell’anima del mondo che, nonostante tutta la nostra supponenza, sempre siamo e saremo, almeno fino a quando l’umanità non si inabisserà nella storia della natura o nella storia dello spazio. Scendendo dalle colline di Foglianise e di Torrecuso si vede in lontananza la valle del fiume Calore che attraversa Ponte e corre, ora calmo ora impetuoso, verso le braccia del Volturno: sembra ancora di vedere gli eserciti dell’astuto Carlo d’Angiò e del fiero Manfredi di Svevia che inseguendosi e scontrandosi decideranno la storia di Benevento e di queste terre per secoli e secoli vissute sotto il giogo e la benedizione e la maledizione dei papi fattisi re, tanto che una volta Giuseppe Maria Galanti, l’illuminista di Santa Croce del Sannio, poté dire che Benevento e il Sannio erano un unico grande monastero. Forse, dall’altura di Santa Croce e con il rischiaramento della sua cultura il Galanti riusciva a vedere con un solo colpo d’occhio la terra sannita orante e dolorante. Risalgo su quei monti e quei boschi dell’Alto Sannio e del Sannio che, da Casalduni a Pontelandolfo, fu detto brigante per salire su a Morcone: questo paese fatto di pietra e di freddo che, però, mi scalda il cuore per le amicizie che vi coltivo, grazie all’ex sindaco Ruggero Cataldi, e alla figura di san Bernardino che, da francescano, rinnovò la Regola benedettina dell’ora et labora che dovrebbe essere cara a ogni buon cristiano e ad ogni liberale capace di aggiornarla con il cogita et labora. In gioventù a volte ero a casa di Corrado Ocone e si discuteva con calore di Croce e di libertà e, forse, non sapevamo o ancora non ci eravamo soffermati sulla presenza di non pochi crociani nel Sannio: non solo Antonio Fusco a Torrecuso, ma Francesco Flora che veniva da Colle, Riccardo Ricciardi da Airola, Alfredo Parente in quel di Guardia Sanframondi, Sebastiano Maturi da Amorosi. Ma questa presenza di crociani sparsi nella terra sannita mi lascia dire che, in fondo, lo stesso Croce era un sannita della terra abruzzese e i suoi “paeselli”, Pescasseroli e Montenerodomo, ma anche Raiano dove morì la sua Angelina e lui si straziò ancora una volta il cuore, fanno parte del Sannio e della mia geografia di opere e di affetti. Senza considerare, poi – e lo faccio passando velocemente come davanti la casa colonica -, che questa radice umanistica e storicista ha il suo seme nella figura di Francesco de Sanctis che partì dall’Irpinia per fare l’Italia.
Ad Amorosi – un nome che ogni volta mi rievoca nella testa e nel petto il verso dei Sepolcri – in un giorno dell’Addolorata sono stato per parlare dei racconti di Antonello Santagata e il destino, più che il caso, ha voluto che mi trovassi proprio nel palazzo di Maturi: l’hegeliano di Amorosi. Ho chiesto la cortesia di farmelo visitare e l’ho girato in lungo e in largo, ma a parte la struttura e la cappella di famiglia non vi è rimasto quasi nulla. Ma è risuonata in me la suggestiva sensazione di aggirarmi per le stanze dell’abitazione di questo filosofo sannita, napoletano e tedesco – e barbuto come un antico longobardo – che da buon scolaro dello Spaventa e da sostenitore del giovane Gentile era fissato con la prima triade della Logica di Hegel – essere, non-essere, divenire – e riconduceva tutta la storia del pensiero a questo “trapasso” mentre, per dirla con Shakespeare, ci sono più cose in cielo e in terra, Sebastiano, di quante ne sogni la tua filosofia. La vita stessa, ripeteva sant’Alfonso con un suo colpo di genio e di poesia, è un’affacciata di finestra e, in fondo, la celebre triade di Stoccarda va concepita proprio come una finestra da dove insieme vedere il mondo e lanciarsi vivi in lui per affrontarlo e crearlo. Come quella finestra, poi murata, del palazzo ducale di Solopaca dalla quale si lanciò Carolina, la sposa bambina, per non cadere nelle voglie del duca, come racconta secondo la leggenda e secondo la storia dei soprusi e delle passioni Antonello Santagata nella sua raccolta di cunti. Anche qui, a Solopaca, c’era un giovane filosofo che apparteneva alla generazione hegeliana e che precedette il Maturi e lo stesso Bertrando Spaventa: quello Stefano Cusani del quale ora un comitato, del quale prima mi avevano chiamato a far parte e dal quale poi mi hanno cancellato senza colpo ferire, ne ha ripubblicato con il municipio gli scritti sparsi. A Solopaca mi lega la figura fraterna di Gennaro Malgieri, la Libreria del Castello e i boschi verdi, sacri e appassionati della Madonna del Roseto su in cima al Monte delle Rose, dalle cui alture si vede la valle telesina con le terre, le acque e le uve. Mi sembra di riascoltare Paolo Isotta che, seduto nel suo salotto di casa a Napoli, si fa un vanto della sua discendenza dai Guerra di Solopaca e di riandare con la memoria ad una trattoria romana di Piazza Farnese dove Ruggero Guarini mi parlava della sua infanzia a Cerreto Sannita. Le guerre e le paci della valle telesina sono, da sole, un pezzo di storia antica e da un po’ di tempo l’Associazione storica pubblica un Annuario che ne mette a tema la ricchezza della sua varia umanità: gli studi storici sono sempre segno di amore e civiltà se non scadono nella pedanteria e nella saccenteria. Il nome di Caio Ponzio è leggendario e la sua impresa, che sia storia o favola, tiene insieme tutta la storia sannita e unisce come in un pugno o in una falange la valle telesina e la valle caudina con il nome di uno dei luoghi più famosi e più misteriosi della nostra anima del mondo: le Forche Caudine. I Sanniti pagarono a caro prezzo quello spernacchiamento che fecero ai Romani facendoli passare sotto il giogo: se li avessero sterminati, come poi faranno i Romani con i Sanniti, la storia sarebbe stata un’altra. Ma l’ucronìa, che è un gioco della mente che mente, esula da queste povere righe di una geografia del cuore che prende forma e contenuto ogni volta che attraverso il Sannio, da Sant’Agata dei Goti a San Bartolomeo in Galdo, da Benevento a Campobasso, come in una transumanza dello spirito. Perché come per il Galanti un tempo erano un unico grande monastero, a me oggi le terre del Sannio, che la malintesa geografia politica chiama “aree interne”, mi si parano innanzi come un unico grande paese in cui ogni comune è un luogo della nostra storia spirituale. Attraversando la gola caudina e la valle telesina mi sento come protetto nel cuore della campagna che abbaia e il naufragar mi è dolce in questo mare di vino e sangue, nella vigna del Signore che è il frutto dell’operosità delle umane fatiche.