di Antonio Medici
Sono passati poco più di due anni da quando, su queste colonne, celebrammo le gesta di Chef Le Diable. Aveva lasciato un segno indelebile, ne avemmo immediata cognizione, nella memoria involontaria il suo risotto al torrone, esemplare paradigma di quanto ricercata possa essere la cucina del disgusto.
Torna in mente quel disagio, stappando una falanghina, millesimo duemilaquattordici, della cantina Porcocane, nome di mera fantasia per una falanghina vera.
Una dolce domenica di inizio autunno splendente di un sole tiepido. Riscalda i dolci pendii vitati e l’animo già ben disposto per la compagnia di amici offertisi a far da cicerone in questa cantina di eroici vignaioli naturali. Ambivalente la natura, prodiga di vita come di morte.
Le pareti annerite di zozzeria intorbidano l’umore prima che il vino. Lo smarrimento viene colto dalla cortese consorte del signor Porococane : “sono lieviti indigeni, ci servono per far partire la fermentazione”. Ben detto. A fermentare deve essere, del resto, il mosto filtrato con una di quelle maglie metalliche solitamente impiegate per impedire agli animali di intrufolarsi nei fori d’areazione delle vecchie masserie. Porcocane in persona ripulisce (si fa per dire) il filtro naturale in metallo, scuotendolo sul cemento dell’aia, lo stesso con naturalezza calpestato dalle ruote della nostra auto e dalle suole delle nostre scarpe. Chissà che prelibati lieviti indigeni avremo lasciato sul quel suolo.
La narrazione ė entusiasmante. La natura, la salvaguardia del suolo, quella maledetta tendenza dell’uomo a usare la tecnologia, costosa e artificiale, dannosa, maledetta, diabolica. Per non parlare dell’orrore del controllo delle temperature, vuoi mettere l’eccellenza stupefacente dei mosti lasciati liberi di fermentare come le ascelle d’estate in ambiente umido e senza aria condizionata. Qual delizia.
Annata straordinaria quella del 2012 per i vini Porcocane, ma quel che ne è rimasto non si può provare, bastino le parole. Da bere solo il 2014. Annata terribile un po’ ovunque in Campania eppure Porcocane assicura che le sue vigne naturalmente risplendevano di uva sana, fragrante, aromatica. Ce ne piazza alcuni esemplari al prezzo naturale di 15 euro. Conservare le pareti zozze, evitare investimenti in attrezzature costose, recuperare e conservare vecchi torchi di legni fradici, quella rudezza di comportamenti, tutto ha un prezzo. La natura costa ai clienti, ovviamente.
Arriva così il giorno in cui il costoso flacone di concentrato di natura cane viene stappato. Il sughero manifesta subito il suo naturale fracidume. Che bello. Eccitante ai limiti dell’esperienza erotica. Con temerario gesto ampio del braccio il liquido esito di procedimenti di naturale e sudicia rozzezza viene versato nel bicchiere. Effluvi mortiferi si liberano nell’ambiente e ammorbano le narici che protestano. Pare di sentire Porcocane gridare “ma è naturale, ignoranti, corrotti dalla tecnologia convenzionale. Spiegate alle vostre narici che la natura è putrida”.
Un medioevo enologico pretende di spacciare per buoni liquidi imbevibili, degni accompagnamenti della cucina del disgusto.
Il signor Porcocane dovrebbe stringere relazioni con Chef Le Diable. Insieme potrebbero lavorare per la ristorazione dell’Isis.