di Giancristiano Desiderio
Scusate, ma a voi della politica davvero ve ne fotte? Confesso a Dio onnipotente e a voi fratelli che ho molto peccato in pensieri, parole, opere e omissioni – come tutti voi – ma mi sono ravveduto e della politica non me ne fotte più un cazzo da molto tempo. Non perché abbia perso ideali e lucidità ma più semplicemente perché le occasioni, come le chiamava Montale, sono passate e siamo destinati a rimanere un paese diviso in bande in cui ogni brigante e ogni manutengolo pensano che la salvezza giunga loro dalla vittoria della propria cosca e dall’accoppamento di quell’accoppatura della paranza nemica. Questo costume nazionale arcaico e anti-moderno, irrobustito e perfezionato dalle culture totalitarie di destra e di sinistra (che, a onor del vero, nascono tutte a sinistra) ha fatto dello Stato un totem teologico-politico che non risolve nessun problema e ci complica la vita dalla culla alla tomba. Amen.
Il pachiderma statale non ha più alcun senso, semmai ne abbia avuto uno, e l’unica funzione che ha è schiacciarci come i pidocchi di Stalin: farci male per il nostro bene. Così passiamo la vita a dannarci l’anima per alimentare la macchina che ci distrugge. Cambia la banda, a brigante succede brigante ma la distruzione delle vite e di quella cosa strana chiamata, tanto tempo fa, patria continua con l’allegro naufragio. Perché non abbiamo capito – fingete di non capire – che il bene e il male non dipendono dalla sostituzione della banda di briganti neri con la banda di briganti rossi ma dalla limitazione della voracità del pachiderma che, come tutti gli dei, ha sete di sangue umano.
Altro da fare non c’è che farla finita con le stronzate della politica di destra e di sinistra e di centro e dei leghismi e dei grillismi con cui i fratelli d’Italia armano il loro carnefice credendolo comodamente il salvatore. Non c’è salvezza nella politica perché lo Stato altro non è che un “male necessario” e più lo si ingrandisce e più fa male. Non gli si può riconoscere altro che un po’ di utilità o sicurezza che, però, appena aumenta e va oltre il seminato si converte in nocività e insicurezza. Quel poco di sovranità che esiste è vostra, se la volete, e non è né popolare né generale ma individuale e l’individuo, cioè l’uomo individuato, quello in carne e ossa, gioia e dolore, sudore e illusione, non la sua essenza, è sovrano di se stesso e deve ambire a non farsi mettere i piedi in testa e le mani in tasca. L’individuo è – come voleva quel sant’uomo di Max Stirner – unico con le sue proprietà ed è libero non perché sappia sempre cosa fare ma perché non lo sa l’elefante statale che s’intromette nelle nostre vite con il monopolio della forza mascherato con l’idea più comica del mondo: il monopolio della verità.
Tagliare la proboscide dello Stato-elefante: questo è l’unico modo per non farsi del male con la scusa del bene. Non è vero che le tasse si trasformano in servizi mentre è vero che se avete più soldi in tasca, frutto del vostro lavoro, potete scegliere meglio dove spenderli per curarvi, istruirvi, rilassarvi. Per quanto uno Stato sia grande, la società degli uomini che si danno da fare per vivere e morire è sempre più ricca e bella del suo nemico che la minaccia con la scusa di renderla sicura. La proprietà non è un furto ma l’opera del lavoro che non è una concessione né un diritto ma un dovere con cui gli uomini di buona volontà – e perfino quelli di cattiva volontà – costruiscono la vita spingendo la pietra di Sisifo.
La statolatria è una forma laica di religione in cui il fedele trae compiacimento dall’autoinganno perché il più delle volte il piacere della disgrazia altrui è più forte del piacere per i propri talenti, soprattutto quanto i talenti sono come i talleri di Kant. Il fiscalismo è l’arma per eccellenza con cui la statolatria espropria i frutti del lavoro e perfino lo stesso lavoro che è tassato come forza, come merce, come capitale e come impresa ancor prima di esistere. L’idea che tutto vada espropriato e affidato allo Stato, conquistato dai briganti o professionisti leninisti che in origine – le risate – volevano eliminare lo Stato e ne fecero, invece, un Leviatano, è una delle idee più cretine mai messe al mondo e diventata la truffa del secolo scorso che tuttora, sotto forma di elefante di Stato e ottusa pedagogia burocratica, grava sulle nostre vite mortificandole nella fantasia e nelle viziose virtù.
La politica brigantesca, che si presenta pura e puritana con l’idea fissa e fessa del partito degli onesti – che è la canzone scema che canta nel cuore dell’idiota -, non è la medicina ma la malattia, non è l’uscita ma l’ingresso del manicomio. L’unica via di uscita è uccidere l’elefante, fottersene della politica e rinunciare lucidamente alla folle idea che lo Stato sia la salvezza. Fottersene della politica non significa disinteressarsene ma non riconoscerle il diritto di entrare nelle vite, nelle proprietà, nelle libertà, nei letti, nelle tasche con cui con sacrifici e lavoro conduciamo noi stessi per le vie del mondo che sempre incanutisce e ringiovanisce uccidendoci. Che ce ne può mai fottere che a governare sia la destra o la sinistra, i populisti o gli illuministi o i populisti che sono illuministi o gli illuministi che sono populisti? Nulla. Ciò di cui ce ne deve fottere non è chi governa ma che chi governa non ci governi molto perché la decenza della nostra vita – e perfino la sua santa indecenza – consiste giustappunto nel non essere eccessivamente governati.
Tutto il resto oscilla tra l’inganno e l’autoinganno.
A malincuore – e con qualche riserva – devo darti ragione