di Guido Bianchini
È di qualche mese fa la sterile polemica tra Saviano e De Magistris. In definitiva a contrapporsi erano due visioni di Napoli che per quanto reali erano infarcite di stereotipi. La Napoli male e mala dello scrittore, fatta solo di sparatorie e traffici loschi e quella bene, da cartolina per attirare turisti del sindaco. Una visione manichea, senza possibilità di conciliazione, secondo il cliché, altrettanto stucchevole, per cui o la si ama o la si odia. Nel mezzo, oltre ad una serie di napoletani con la loro complessa quotidianità, c’era una terza via, accennata soltanto da Aldo Masullo in un’intervista al Mattino in cui la fretta da sondaggista referendario dell’intervistatore, bramoso di sapere per chi si schierasse il decano dei filosofi napoletani, non ha permesso all’intervistato di argomentare a dovere. In sostanza Masullo proponeva un recupero della centralità di Napoli per il mezzogiorno, puntando su una storia millenaria, senza nascondere i suoi punti critici che di quella stessa storia rappresentano la degenerazione. Leggendo in filigrana tra le poche righe, si poteva scorgere la sagoma veneranda di Gerardo Marotta e dell’Istituto di studi filosofici, cui ha dedicato la vita.
La suggestione non è azzardata, non solo per l’affinità di studi ed interessi tra i due illustri intellettuali, ma per il fatto che quella creatura, incastonata nel centro storico, potrebbe essere l’emblema e la metafora della loro via comune. La terza, potremmo dire, perché al di là del bene e del male, dell’accattonaggio di consensi e dei mulini da irrigare. Già l’ubicazione urbanistica, al termine di una lunga e ripida salita, evoca la fatica del concetto, non quella indicata da Hegel come connaturata alla serietà del pensiero, ma quella ancora più ardua di creare un luogo dove conservare questo grande patrimonio culturale, rendendolo per di più accessibile a tutti. Un luogo aperto che parlasse di Napoli come capitale europea, come crocevia del sapere attraverso le intelligenze nostrane che le hanno dato lustro e quelle “straniere” che vi si sono fermate per respirare quella sapienza nata dalla Magna Grecia e sviluppatasi e consolidatasi nei secoli. Un luogo che non fosse archivio museale, ma centro vivo, in cui le grandi correnti del pensiero continentale trovassero un porto sicuro dove far confluire i mille rivoli della ricerca. Un rendere attivo e pro-positivo il passato con un occhio al futuro, senza proclami elettorali. Un processo di possibile e costante crescita testimoniato dalla presenza silente, ma feconda di giovani studiosi di ogni parte del mondo che oltre a riempire quelle sale zeppe di volumi, attraversano le stesse strade di Vico e Croce, capendo meglio quello strano mondo, pieno di sfumature che li accompagnava dovunque e influenzava inevitabilmente il linguaggio intramontabile delle loro opere.
Un quadro apparentemente idilliaco, dove non sembra esserci spazio per il negativo e invece proprio Marotta, senza scomodare Saviano, avrebbe potuto dissentire, mostrando le crepe di un palazzo tanto nobile. Non si tratta di quelle materiali, dovute al tempo, che pur ci sono , ma vanno via con un po’ di stucco, ma di quelle congenite al tanto grande quanto fragile “palazzo ideale” della cultura napoletana, non tanto dissimile dalle altre “cattedrali” nel deserto della cultura italiana. Un edificio a pezzi in cui il sapere è ridotto orpello destinato all’oblio. Marotta stesso ha vissuto in prima persona gli effetti dannosi di un Paese incapace di portare avanti politiche culturali degne di tal nome, ma freddo e cinico nel distruggere quelle poche eccezioni sopravvissute negli anni. Da fiero alfiere della cultura napoletana Gerardo Marotta non ha disdegnato neanche di trasformarsi in “giovane” youtuber ,pur di tentare di salvare, con appelli via web, purtroppo caduti nel vuoto, il “suo” istituto e il senso della sua stessa vita. Chiedeva un posto degno per i suoi autori, per la sua amata biblioteca, non per farsi vanto del suo sconfinato sapere, ma per dare la possibilità agli altri di attingervi la vitalità del pensiero. Le sue speranze sono naufragate in una serie di scatoloni ammassati in un casolare, da cui i suoi testi, non potendo più parlare ad occhi e menti altre, sono destinati al silenzio e all’incuria da un sistema che fa della conoscenza un qualcosa di superfluo da estirpare dalla nostra coscienza collettiva di italiani e di meridionali con continue e dolorose “cerette” auto-lesioniste. Lo stesso sistema malato che magari, ora che non può più udire la voce di protesta dell’ Avvocato, incenserà il suo nome, dopo averne calpestato lo spirito. La tempra dura di un guerriero della cultura dai modi garbati che tra scaffali di libri si sforzava di mostrare un altro volto di Napoli, inciso tra quei saperi che sono la bussola di una città, essenziali soprattutto nello smarrimento diffuso dei nostri tempi, di cui molti, decisamente troppi sembrano essersi dimenticati.