di Giancristiano Desiderio
Un lungo articolo di Ernesto Galli della Loggia, pubblicato sul Corriere della Sera, mi fornisce l’occasione di ritornare su un tema a me caro: la fine della scuola. Da un po’ di tempo non si fa altro che parlare di scuola, la scuola “fa notizia” e l’ultima (non) riforma è stata definita, senza senso della vergogna, Buona Scuola. Eppure la scuola è finita. Che significa?
Galli della Loggia sostiene che la scuola italiana sia in una grande crisi perché la politica ha abdicato al suo ruolo guida non avendo più una reale cultura nazionale da esprimere. Lo Stato italiano, infatti – ricorda lo storico – è stato il creatore della scuola e, nel secolo XIX, dovette farsi pedagogo per sottrarre il monopolio della cultura all’istituzione del tempo: il prete. Lo Stato italiano, per il modo in cui nacque, aveva in sé un dissidio e un conflitto con la nazione: fu necessario creare il cittadino e condurlo quasi per mano verso la cultura moderna. La scelta di avere una scuola di Stato fu una necessità. Il percorso pedagogico che si creò, fondato su un’educazione laica ed umanistica, svolse il suo ruolo fino alla anni Sessanta e Settanta per poi entrare in crisi e progressivamente decadere sotto il peso della società di massa e della democrazia di massa. E’ a questo punto che la scuola “finisce” e non è più pubblica – ossia non ha più una funzione e una tradizione nazionale a cui richiamarsi – e diventa prima una scuola sindacale e poi un sistema d’istruzione affidato a burocrati, tecnici, esperti e alle stesse autonomie scolastiche in cui trionfa una tanto vacua quanto potente pappetta cosmopolitica che può essere somministrata anche da un computer o da “corsi di formazione”. E’ condivisibile la ricostruzione di Galli della Loggia che ho qui riassunto? Credo di sì, perché è, per grandi linee, la storia della scuola italiana. Tuttavia, se si passa dalla “grande narrazione” ad un approfondimento più concreto, la storia della scuola può essere anche più significativa e istruttiva. Almeno così mi sembra.
Il processo di statizzazione della scuola – per sottrarre il monopolio della cultura alla Chiesa cattolica e creare una cultura dello Stato – ha un suo importante punto di arrivo e di nuovo avvio: la scuola di Gentile e di Croce, passata poi alla storia come riforma Gentile. La scuola gentiliana, che lo stesso fascismo s’incaricò subito di riformare, con il liceo classico e il liceo scientifico e con gli istituti professionali, è stata la scuola italiana almeno fino alla fine degli anni Ottanta e tuttora rimane un paradigma di riferimento per orientarsi. I governi di centrosinistra, dalla fine degli anni Sessanta, iniziarono a smantellare la scuola gentiliana senza, però, sostituirle un’altra scuola: crearono un collegamento diretto tra tutte le scuole e l’università e cancellarono ogni distinzione tra diplomi e scuole. La scuola gentiliana creava delle élites o avrebbe voluto: non per classismo, ma più semplicemente perché la sua funzione era quella di fornire allo stato classe dirigente. Era una scuola pensata per pochi giacché erano pochi che avevano realmente bisogno della scuola. Con la società di massa, dove tutti vanno a scuola e tutti (forse) hanno bisogno di una scuola, le cose mutarono. Purtroppo, però, per l’Italia cambiarono malissimo: mentre, infatti, in altri paesi la scuola di massa fu bilanciata dalla creazione di alte scuole di formazione, in Italia si smantellò solo la vecchia scuola. La scuola vecchia iniziava a morire, la scuola nuova non nasceva. Questa storia del vecchio che declina ma non muore e del nuovo che è immaginato ma non nasce è durata fino a ieri e ha anche un nome: sperimentazione. Oggi è una storia conclusa: non perché si sia passati ad altro ma perché, appunto, la scuola è finita – sfinita, esaurita, tramontata – e ci si dedica solo a questioni organizzative – la cosiddetta Buona Scuola è solo questo: assunzioni, graduatorie, ambiti, procedure. Rimane, però, un aspetto importante da chiarire: come è possibile che il vecchio modello della scuola gentiliana, snaturato e smontato, sia stato usato per mezzo secolo per giocare con la sperimentazione?
La Stato italiano creò ed organizzò la scuola ma la vera e propria statizzazione nacque con la riforma amministrativa e delle professioni con cui la riforma Gentile s’incontrò con la creazione del valore legale del titolo di studio. Associazioni, professioni, enti che fino a quel momento avevano vissuto di vita propria passarono sotto l’ala protettiva dello Stato che le battezzò e riconobbe come tali privandole di autonomia alla quale si rinunciò volentieri. Questo sistema fece dello Stato il monopolizzatore della scuola. Ma, per paradossale che possa sembrare, chi porterà a sistema il monopolio di Stato della scuola sarà la repubblica e lo farà proprio passando dalla scuola gentiliana alla scuola di massa conservando e usando quel valore legale del diploma che consentirà ai partiti e ai sindacati di impossessarsi della scuola e usarla a proprio piacimento. Una sorta di cavallo di Troia. E’ negli anni Settanta, infatti, che la scuola inizierà a crescere in modo esponenziale ed elefantiaco: più la si valorizzava legalmente e più la si svalutava realmente trasformandola in un gigantesco parcheggio sociale. In altre parole: la scuola sarà distrutta attraverso l’uso e la crescita della scuola che con il diploma legale sarà conquistata gramscianamente dal cattolicesimo (Dc) e dal comunismo (Pci). La fine della scuola è, dunque, la fine della cultura nazionale e, per paradossale che possa sembrare, la scuola pubblica finisce proprio quando è – come si dice con un’enfasi insopportabile – aperta a tutti. L’egualitarismo alla fine è una sconfitta della democrazia che perde per un suo interno svuotamento e chi ne fa maggiormente le spese sono coloro che più hanno necessità di avanzamenti. La sperimentazione è la fine estenuante della scuola che diventa un manicomio mascherato da una cultura tecnico-operativa ispirata alla pedagogia tanto al chilo. Come se ne esce, se se ne esce?
Galli della Loggia dicendo che la politica ha abbandonato la scuola fornisce implicitamente una risposta. Lo Stato, tramite la politica, dovrebbe ritornare a scuola. Ma si può immaginare di ritornare al passato? No di certo e, del resto, la domanda è puramente retorica. Non si ritorna al passato non solo per motivi politici – un mondo, più mondi sono finiti – ma soprattutto per una questione sociale e scolastica: si tratta di soddisfare bisogni e necessità nuovi e molteplici e lo Stato non è in grado di farvi fronte né educativamente né economicamente. Ad una società che ha bisogni diffusi e vari, plurali, deve corrispondere una scuola che abbia un’offerta plurale. Lo Stato nella sua unicità non è in grado di dare questa risposta e – sia detto con nettezza – non deve neanche farlo. Il compito dello Stato non è quello pedagogico, che assunse per necessità, ma di garante di un sistema di scuole che ha la sua fonte di bisogni e di formazione nella società e nei privati. E’ all’interno di questo sistema di scuola libera che lo Stato può ricreare, se ne ha le energie morali, la tradizione di una scuola e di una cultura nazionale. In altre parole, ciò che non fu fatto a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta va fatto cinquant’anni dopo. È necessario andare al cuore del problema e guardare la scuola nei suoi fondamenti giuridico-istituzionali per abolire il valore legale del diploma e passare dalla sistema della scuola di Stato al sistema della scuola libera. Mentre il primo esclude il secondo, il secondo non esclude il primo. E’ solo all’interno del sistema della scuola libera che lo Stato, sgravandosi da pesi e ruoli che non gli competono, potrà tornare a essere il garante del diritto allo studio e ricreare una tradizione nazionale con alte scuole di formazione. La fine della scuola è in Italia il fallimento della scuola di impianto napoleonico. E’ bene prenderne atto giacché di quel sistema è rimasto, ormai, solo l’involucro che nella sua ossatura è utilizzato, anche inconsapevolmente, contro la scuola.