di Giancristiano Desiderio
Mi salutava chiamandomi e sorridendomi: “Ciao Cristiano”. Rispondevo con naturale gioia e affetto: ” Ciao Manfredi”. Da stamane, ora dopo ora, mentre cerco inutilmente il particolare che mi distolga, nei pensieri e nei desideri perduti rivedo i suoi sorridenti saluti e lo saluto: ” Ciao Manfredi”.
La morte improvvisa di Manfredi Pascarella mi ha raggiunto come un’ombra mentre ero a casa al tavolo di lavoro. Due righe di Giorgio, mio fratello, su WhatsApp. Un messaggio concentrato come una lacrima. Necessario e incredulo perché Manfredi era come uno di famiglia.
Avevo in quel momento finito di leggere un articolo sulle “celebrità defunte” che provocano una sorta di lutto universale e un piagnisteo generale. Avevo scritto due righe per rivendicare il diritto e il dovere di non piangere ogni giorno per la perdita della star o del volto popolare del momento. Ognuno di noi ha già, per diritto naturale, i suoi morti da piangere e seppellire e ognuno di noi -si spera- sarà pianto e seppellito con pietà e dignità. Le morti celebri sono lontane dai nostri affetti e dai nostri sensi e dalla nostra sensibilità, sono astratte e come angelicate e immaginate, mentre la fine dei nostri cari sconosciuti al resto del mondo ci colpisce il petto perché è per noi la fine di un mondo. Manfredi, con quel nome antico e di gentile aspetto, mi era caro come un mondo amico.
Che cos’è un paese? E’ un luogo in cui la morte ha un nome e un cognome, perché gli uomini e le donne che non ci sono più si vedono ancora nella loro assenza dal luogo. Sant’Agata dei Goti è scossa nelle pietre e nelle membra come se avesse avvertito il terremoto. Stamattina l’aria era ferma e i santagatesi guardavano il cielo. Vuoto. Si guardavano tra loro e si salutavano per consolarsi, per riscaldarsi. A Benevento stesse scene. Manfredi era conosciuto e apprezzato. Amato, non è scontato, non è facile. È vero.
La tragica fine di Manfredi mi ha riportato alla mente una giornata lontana lontana nel tempo. Sono ragazzo e con i miei fratelli, Giorgio e Dario, siamo seduti a tavola in attesa di papà mentre mamma è ancora a scuola. Quando mio padre arriva e si siede gli dico: “Hai saputo chi è morto?”. Mi guarda e attende che parli. ” È morto Corrado Vigliotti”. Papà sbarra gli occhi, lascia cadere la forchetta e non tocca cibo. Ci guarda con amore e tristezza. Per tutta la giornata rimane così, come sospeso e rapito.
Fermo al tavolo di lavoro, ancora con quel titolo falsamente intelligente sottogli occhi -“Ecco un perché dei lutti eccellenti di questo 2016”- ho rivisto mio padre, anche lui morto giovane e bello, il suo amico Corrado e i suoi figli, miei amici (Antonio, Nunzio che non so più dove sia, Roberto detto con affetto Re Cecconi) e Manfredi con la sua solita cordialità mentre mi calava sulle spalle la stessa angoscia che colpì mio padre quel giorno così lontano, così vicino.
Ero legato a Manfredi da una reciproca simpatia. Quando morì Piera, la moglie, bella come la primavera, lavoravo a Roma e la morte, fulminea e gelida, che commosse il paese, mi interpellò. Scrissi a Manfredi un biglietto e provavo, con ingenuità e presunzione, a consolarlo indicandogli la via del dovere di padre verso i suoi amati figli Antonio e Agnese. Se puoi, Manfredi, perdonami.
Non ho parole consolatrici, né terrene né ultraterrene. Soltanto la vita, veneranda e terribile, umana e divina, è in grado di consolare la vita. Bisogna saper lasciare gli affetti che cadono e dedicarsi anima e corpo ai lavori e ai doveri provvidenziali che la vita ci reca innanzi. Create vita. Non ho altre parole se non queste, nude e scarne, e non so se io stesso ne sia all’altezza, ma ho visto Antonio all’opera, animato da sincera fede nella vita e nella civiltà, e credo devo credere che la forza ancora una volta non gli verrà meno e creerà nuova vita camminando mano nella mano con Agnese.