di Giancristiano Desiderio
Mi chiama uno (uno, due, tre) e mi fa: “Senti, sotto al tuo nome che devo scrivere?”. “Scrivi giornalista”. “Solo giornalista, sei sicuro?”. “Sì, certo, sono sicuro, anzi no, fa’ una cosa, non scrivere nulla, metti solo il nome”. “Ma non possiamo mettere giornalista e scrittore oppure non possiamo mettere docente, un titolo, tu hai una cattedra all’università”. “No, guarda, ti ringrazio ma io non insegno all’università e le cose che scrivo non c’entrano nulla con l’accademia”. “Ah, pensavo che insegnassi all’università”, mi dice dispiaciuto, “va bene dai ma un titolo dobbiamo metterlo, lo mettono tutti”. A questo punto di solito mi arrendo: “Fai un po’ come vuoi ma a me farebbe piacere mettere o l’attività che svolgo o, ancora meglio, solo il nome”. E’ una delle mie massime aspirazioni (ognuno ha le sue): non aver titoli e contare, per quel poco che posso, solo per il nudo nome, solo per ciò che ho conquistato sul campo. Cosa un po’ strana, me ne rendo conto, nel piccolo mondo italiano dove non si è perché si vale ma si vale perché si è ossia perché si ha un titolo da esibire. Una volta mi son ritrovato in un dibattito in cui erano tutti professori “dell’università degli studi di…” e io ero l’unico a essere nessuno cioè senza titolo. Che meraviglia, che godimento.
Sembra una sciocchezza ma dentro c’è un problema vero. Gli italiani non sanno più come chiamarsi, diceva Einaudi. Aveva ragione e proponeva, provocatoriamente, di ritornare al signor. Ma ormai signore non significa più nulla e, anzi, si usa in senso dispregiativo per dire a qualcuno che non è nessuno. Peccato, perché è così bella la parola signore. Gli italiani sono tutti alla ricerca di titoli e non vedono l’ora di farsi il loro bel biglietto da visita con dott. prof. ing. on. dir. manager e cazzate varie o mettersi la bella targa all’ingresso di casa con tanto di lumino come si usa per la tomba. In fondo, gli italiani si fanno la cresima per farla finita con la fede, si sposano – come diceva Salvemini, mi pare – per farla finita con l’amore e si prendono un pezzo di carta per farla finita con lo studio mai iniziato e avere un bel titolo da ostentare.
Mi viene in mente quel che diceva la buonanima di Sabatino Palma a mio nonno – il professore Palma, che insegnava disegno e, dopo aver fatto la guerra, dopo esser stato prigioniero in India e aver disegnato anche in prigione, morì a cent’anni e fino all’ultimo giorno continuò a dipingere: “Miche’, vuoi vedere che se io ora dico dottore si girano tutti? Ormai, qui sono tutti dottori e nessuno sa fare più nulla”. A distanza di qualche tempo, le parole del caro professore Dino Palma mi sembrano ancora una buona analisi e un’ottima sintesi per capire la decadenza dell’Italia.
Tra tutti i titoli quello più idiota è “docente universitario”. Chi lo usa – giornalisti, sempre pronti a dir cazzate, burocrati, sempre pronti a non dir nulla, dirigenti, sempre pronti a dirigere il niente – intende dire che non si tratta di un professore di scuola ma un accademico. L’aggettivo “universitario” e il sostantivo “università” esercitano un fascino perverso sugli spiriti piccolo borghesi e non solo su loro. Al sapere è legato il peccato della superbia che a sua volta da la mano alla vanagloria sociale. Ma il vero sapere non è né superbo né vanaglorioso perché nasce dalla consapevolezza della insuperabilità dell’ignoranza e della fatica, quindi sa che sapere non significa dottrina ma lavoro. Un tale era bidello o uscire alla Federico II ma invece di dire che era bidello diceva “lavoro all’università”, un po’ per ricevere luce riflessa dall’istituzione, un po’ per generare l’equivoco e lasciar intendere di essere “docente universitario”. Cosa, per altro, più comune di quanto non si creda: la quantità di professori universitari è inversamente proporzionale alla loro qualità.
Il nostro è il tempo – così si usa dire – della conoscenza e i beni più importanti sono quelli immateriali. Sarà. Ma a me, che ne so molto poco, il nostro appare come il tempo dell’ignoranza elevata a sistema. Più si è ignoranti, più si è dotti. Una volta l’università era lontana, oggi è sotto casa. Il mondo è diventato dottissimo e universitario. Si ritiene, a volte consapevolmente a volte ingenuamente, che ad ogni professione, ad ogni mestiere, ad ogni mansione debba corrispondere un titolo e un curricolo di studi. Nessuno pensa più che il sapere e le attività si apprendono con il sudore e il sacrificio e il personale dramma mentale. Tutti credono, anche per comodo proprio, che il sapere e l’attività si apprendono con i libri, gli insegnamenti e il conseguimento dei titoli. Così i corsi di laurea non si contano più sulle dita delle mani ma con il computer. Ho difficoltà a pensare più di cinque facoltà: medicina, legge, ingegneria, economia, lettere ma già è un’eccezione. Con architettura metto mano alla pistola, con sociologia la carico, con scienze politiche mi sparo direttamente (anche se di solito chi sparava usciva proprio da queste facoltà). Una volta c’era la moda sociologica e si faceva socioqualsiasicosa; oggi lo si fa con le scienze e così fioriscono le scienze turistiche, infermieristiche, educative, dei beni culturali e sono perfino le meno stravaganti e le più utili. Basta piazzare “scienze” davanti a qualunque cosa, ad esempio, a comunicazione e avete creato un bel corso di laurea che non serve a nulla e non insegna nulla ma che in compenso genera professori, naturalmente universitari, e studenti, naturalmente universitari, che si convincono scambievolmente che il mondo sia sapere e comunicazione e lo si possa ridurre a trasparenza razionale e infilarlo in un’aula (universitaria). Il numero dei laureati che sforna il sistema universitario italiano è anche inferiore rispetto alle attese e agli obiettivi europei. Perché, ormai, questa è la concezione degli studi universitari: una diffusione di titoli e certificati nell’illusione di collocare i laureati in un mercato del lavoro in cui il lavoro è una funzione burocratica in una società da dotto e borioso socialismo reale. Così viviamo in un mondo di scienziati di ogni tipo che non sanno nulla ma lo sanno scientificamente e se il caro professore Palma oggi si facesse un giro da queste parti non dovrebbe più fare l’esempio con il titolo di dottore bensì con scienziato e tutti si volterebbero credendo, giustamente, di essere stati interpellati come – diceva Enzo Biagi che ogni tanto qualche notizia pur la dava – addetti al ramo.