di Amerigo Ciervo
«Perciò vi dico: non siate in ansia per la vostra vita, di che cosa mangerete o di che cosa berrete; né per il vostro corpo, di che vi vestirete. Non è la vita più del nutrimento, e il corpo più del vestito? Cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno date in più. Non siate dunque in ansia per il domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. Basta a ciascun giorno il suo affanno.” (Matteo, 6,25-34)
Ve lo ricordate Mitridate, conosciuto come Mitridate il Grande? Fu re del Ponto, dal 111 a.C. al 63 a.C. È stato uno degli avversari più tosti della Roma repubblicana che, nel corso di tre guerre, gli dovette mettere contro i suoi generali più valenti, Silla e Pompeo Magno. Ma Mitridate è soprattutto famoso per la sua resistenza ai veleni, resistenza che si sarebbe procurato assumendo, di ogni farmaco, dosi sempre crescenti, fino a diventarne totalmente immune. I termini mitridatizzazione, mitridatizzare, alludono proprio alle conseguenze di tale pratica. Se una cosa, la campagna referendaria appena terminata, ha messo in mostra, secondo me, è proprio una profonda mitridatizzazione della politica italiana e, per quanto mi riguarda, della sinistra italiana. E’ importante usare le parole con grande cura. Essendo, esse, la traduzione di pensieri profondi. Quando questi ci sono. Come insegna quel furbacchione d’un sofista, Gorgia, siculo di Lentini, la parola “è un gran dominatore, che con piccolissimo e invisibile corpo, compie cose divine, come calmare la paura, eliminare il dolore, suscitare la gioia, aumentare la pietà.” Aggiungerei, in politica, anche di mescolare le carte in tavola, di spingere le persone a votare, con le buone o con le cattive, e di tirare fuori le cose peggiori in un individuo che si è dato anima e corpo all’attività politica. Un po’ di anni fa accadeva che, di certe parole, si provasse vergogna. Quelle, per esempio, usate da un esponente della sinistra contro Rosy Bindi. O quelle, dette in pubblico, sempre dal medesimo esponente della sinistra, nell’ormai famigerato discorso delle clientele, dei soldi che devono arrivare, delle fritture di pesce e del “me ne fotto”. Se vi fate un giro in rete, ritroverete una foto che lo ritrae accanto a Enrico Berlinguer. E, quindi, la domanda all’ordine del giorno è: com’è che siamo arrivati a questo? Com’è che siamo arrivati a tal segno? La risposta è: Mitridate. Le acque si sono rotte e ci siamo davvero abituati a tutto. Sicché non ci si meraviglia più di leggere post e interventi che giustificano davvero tutto, in una sorta di travolgente, delirante politicizzazione curvaiola. Ora la campagna referendaria è finita. Ci siamo detti tutto quello che dovevamo dirci. Ritorneremo alle nostre occupazioni consuete. Ma dopo il cinque dicembre, comunque andrà, tutti dovremo pensare a leccarci le ferite. Abbiamo più volte ripetuto che al referendum sarebbe stato meglio non arrivarci. Non è stata una grande idea sottoporre l’Italia a questo lunghissimo, prolungato stress, e non su un qualsiasi tema più o meno sensibile, ma sulla Costituzione. Comunque andranno le cose, dopo il 5 dicembre ci ritroveremo in un tragico guazzabuglio. Ma non nella direzione immaginata dalle interessate e malmostose cassandre dell’economia mondiale, le cui previsioni trucide hanno, specie negli ultimi giorni, costantemente trovato ampi spazi e titoloni roboanti su quasi tutti i giornali, cartacei e on line. Dacci oggi il nostro spread quotidiano, verrebbe da dire. Sarà un guazzabuglio nel senso della necessità del dover ricomporre l’unità politica e ideale di una comunità che è stata condotta per mano, accompagnata, con una scelta politica profondamente sbagliata, a spaccarsi violentemente, ferocemente, sulla legge fondamentale.
Capita, talvolta, trovandosi in una boscaglia fitta, dopo aver camminato parecchio, di avvertire la sensazione di non essere più sicuri del sentiero che si sta seguendo. Il consiglio più comune che ci viene impartito è che sarebbe opportuno fermarsi, sedersi e tentare di ricostruire, con la maggiore precisione possibile, il percorso compiuto. Ora tale consiglio non vale solo quando si va per funghi, ma, probabilmente, ci può servire anche trovandoci davanti a un bivio. Non potremmo vivere senza mappe, cartine, navigatori. Il Vangelo è una delle mappe sulle quali ho scelto di orientare la mia vita. Le altre sono la Costituzione e, infine, il pensiero di un manipolo di filosofi, a cominciare da quel fastidioso “tafano” di Socrate. Non vorrei apparire folle, ma nella frase di Matteo (l’evangelista, ovviamente …), che ho sistemato in esergo, ci ritrovo il senso dei nostri discorsi dell’oggi. E della scelta che ci viene chiesta di fare domenica. “Non siate dunque in ansia per il domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso”. Questa frase, per me, significa: non vi preoccupate per il domani, per il futuro – di cui noi, sostenitori del No, saremmo, secondo la comune vulgata dei nostri avversari, ladri incalliti – per le apocalittiche previsioni di un manipolo di agenzie finanziarie, di giornali economici, di consiglieri interessati – in ultimo anche del presidente Prodi che, vent’anni fa, sull’onda della Canzone popolare di Fossati, tutti uniti, portammo trionfalmente a palazzo Chigi. E che oggi sembra abbia dimenticato tutto. Anche i 101. Non dovremo essere in ansia perché, fino a quando saremo “schiavi delle leggi”, riusciremo ad uscirne. Non c’è mai un’ultima spiaggia. E a chi ritiene, in democrazia, di presentarsi come l’ultima spiaggia, si dovrebbe vivamente consigliare di farsi dare una guardatina da qualche strizzacervelli.
Ci hanno detto: la Costituzione va riformata perché è un problema di tempi, di velocità dei processi di formazione delle decisioni poiché siamo di fronte alla complessità dei mercati economici e finanziari globali. Dunque servirebbero velocità e semplificazione. I Greci, che sono i nostri maestri, nell’ecclesìa, ossia nell’assemblea, prevedevano la cosiddetta parresìa, cioè la libertà di poter dire proprio tutto e nella maniera che si sceglieva di dirlo. Il francese parlement, a cui si collega la parola “parlamento”, indica, come caratteristica fondamentale del luogo, dove si assumono le decisioni supreme di un paese, dove si fanno leggi, proprio la parola. La parola è la base del confronto dialettico continuo, anche aspro ma necessario, in una società complessa, come quella che ci è dato da vivere. Si può rispondere ai grandi problemi che la complessità ci pone davanti – le nuove e inedite stratificazioni sociali, i flussi migratori, le metamorfosi del lavoro, il rapporto squilibrato tra economia finanziaria ed economia reale, e le sempre più sproporzionate ingiustizie sociali, solo per citarne alcuni – semplificando e velocizzando? A costo di passare per un bieco conservatore, ritengo, invece, che il parlamento – il luogo dove gli interessi diversificati e contrastanti, che emergono nella società civile, devono trovare, per poter salvaguardare la ragione stessa del nostro essere una Repubblica democratica, una sintesi politica – debba essere lasciato ancora più libero di poter sviluppare al massimo grado, e al più alto livello, il ruolo centrale che la Costituzione e la nostra storia politica gli riservano. Che privilegiano, e non mi sembra sbagliato, la rappresentatività prima della governabilità. Ovviamente i dialoghi, intesi come “attraversamento delle parole”, non si protrarranno all’infinito. La maggioranza politica prenderà le sue decisioni a cui, peraltro, si perviene con un lavoro certosino, delicato, continuo, rigoroso, che implica, attraverso mille ragionamenti, nelle commissioni e in aula, aggiustamenti e miglioramenti che potranno giungere dalle parti più diverse. Ho idea, viceversa, che postulare semplificazione e velocità significhi alludere a metodologie differenti, a scelte probabilmente prese nella segretezza di certe stanze, dagli amici degli amici e che il parlamento, formato non da eletti, ma di nominati, dovrà, velocemente, semplicemente, dopo una mera, rituale parvenza di dibattito, solo controfirmare. Sedici giorni sono stati impiegati per approvare, in sincronico bicameralismo perfetto, la legge Fornero. E meno di un mese il lodo Alfano. Quando c’è la volontà politica di fare certe leggi, non c’è bicameralismo che tenga.
Qualcuno ci dice: ma non vi accorgete, voi del No, di essere un’accozzaglia? Ora, chi ha la funzione di presidente del Consiglio dei ministri, cioè del titolare del potere esecutivo, dovrebbe curare, come già si è detto, con più attenzione l’uso delle parole. Soprattutto in una campagna referendaria dove non sono in gioco i destini del governo, ma si discute su una riforma della costituzione. Nel 1974, durante il referendum sul divorzio, Fanfani, segretario della Democrazia Cristiana, se ne uscì con una frase shock, per quei tempi: “Volete il divorzio? Allora dovete sapere che, magari, dopo vostra moglie vi lascerà, per scappare con la serva!”. Fanfani aveva impostato il referendum come una sorta di finale “giudizio di Dio” , supportato in questo da tutto il suo partito, anche se la sinistra DC e, soprattutto, il governo (presieduto dal doroteo Mariano Rumor) rimasero in disparte durante la campagna referendaria. Anche allora lo schieramento del «no» era estremamente diversificato: dal PLI di Malagodi alla sinistra extraparlamentare. E non votò, contro il taglio della scala mobile, nel 1985, anche la destra neofascista? E a chi venne in testa di dirlo? Se fosse vera la tesi dell’accozzaglia – ma che ben miseri argomenti si vanno esperendo – dovremo concludere che anche i quattro nomi, che siglarono la Costituzione italiana, il 27 dicembre del 1947, De Nicola, Terracini, De Gasperi e Grassi, formano una ben nobile accozzaglia?
Allora l’idea è che sembra che si voglia trasformare la riforma costituzionale – fatta male, pasticciata, con una serie di conseguenze che in questi mesi abbiamo esaminato, con la guida di costituzionalisti come Vincenzo Baldini e Massimo Villone – in una sorta di velo di Maya in grado di coprire l’incapacità dell’unica riforma di cui questo paese abbisogna: ossia la riforma della politica. In ogni caso, noi non ci tireremo indietro. Non dimenticheremo le offese recate alle scelte dell’ANPI, anche quelle lette sul quotidiano che continua impunemente a fregiarsi del nome di Antonio Gramsci. Ma le metteremo da parte, perché sarà necessario ricostruire un tessuto culturale e politico unitario, in grado di ritrovare i principi e i valori costituzionali che stiamo difendendo con le unghie e con i denti. Continueremo a lavorare con ottimismo, con l’ottimismo che ci deriva dalla certezza che abbiamo combattuto una buona battaglia. Una battaglia che abbiamo voluto combattere unitariamente. Abbiamo incontrato vari comitati, associazioni e, soprattutto, uomini e donne. Con tutti abbiamo collaborato, dibattuto, solidarizzato, partendo da pochi, basilari elementi: l’antifascismo, la democrazia, i doveri e i diritti costituzionali. Qualcuno potrebbe pensare: sono quattro gatti, ma, in realtà, voti zero. Ma la nostra, è stata una battaglia ideale. Non abbiamo sindaci da convocare, né centri di potere da attivare. Difendiamo un’idea a mani nude. Ecco perché non saremo, evangelicamente, in ansia per il domani. Continueremo a mettere in campo tutti i nostri principi, morali e politici, e, pur consapevoli delle enormi difficoltà che dovremo affrontare, non smetteremo la speranza di poter conquistare, una volta ancora, la nostra primavera.