di Giancristiano Desiderio
La lim, i tablet, la password, il workshop e, naturalmente, l’hackathon ma mia nonna andava a dorso di un asinello a far lezione in montagna. Più la scuola diventa futura e più mi ritorna in mente la scuola del passato, quella fatta dalle maestre elementari che hanno unito l’Italia e gli italiani più di Giolitti e De Gasperi. Nostalgia? No, solo storia. Perché possiamo diventare tecnologici e possiamo innovare insegnamento e didattica, dobbiamo farlo, ma non dobbiamo commettere l’errore di fare a meno dell’anima e di quello che Graham Greene chiamava il fattore umano. In questo cortile della Reggia di Caserta, sotto questo gazebo dove abbiamo creato una redazione con i ragazzi e le ragazze del Liceo Manzoni, il fattore umano è vivo.
Il Piano nazionale della scuola digitale – nome che pretende un po’ troppo da se stesso – prende il via oggi a Caserta per tre giorni. La Reggia diventa un grande laboratorio digitale, si parla in inglese ma non ne sono sicuro, sembra una lingua tecnica e metallica, tutto viene avvolto nei concetti della tecnologia che divorano la realtà. E ancora una volta mi sovvengono le mie nonne che tra le due guerre mondiali insegnavano ai bambini che non avevano le scarpe ed erano vestiti con maglie e giacche consumate nel lavoro dei campi. Queste immagini, viste e riviste nelle fotografie di famiglia, mi assalgono forse perché la storia che c’è intorno, con il travertino della Reggia, è quasi una sorta di contrappasso dell’hackathon. Sì, perché la realtà – parola che significa insieme delle cose che sono – è fatta proprio così: è dura a morire e vuole essere ascoltata.
Il direttore di Palazzo Reale, Mauro Felicori, è della partita. Lamenta la poca cura di Piazza Carlo III da parte del comune: è sporca, non c’è attenzione, niente manutenzione, mentre la grande Piazza è il biglietto da visita della monumentale reggia vanvitelliana. La critica di Felicori mi sembra il carattere della realtà che è sempre presente, anche quando si cerca di trasformarla in comunicazione, anche quando le si dà una mano di vernice, anche quando la si ignora, niente da fare, la realtà ritorna a galla. La scuola digitale che rappresenta se stessa nella Reggia come il futuro dovrebbe imparare a curare la realtà, a pulire la piazza, a fare manutenzione, a tenere insieme il digitale e il fattore umano, a creare il futuro e ricreare il passato. I giovani che entravano stamane, sotto la pioggia, alla Reggia per prendere parte alla gara tecnologica – l’hackathon – sapevano cosa fare: sviluppare un programma per ottenere in meno di 24 ore una nuova applicazione (App).
Giovani e tecnologia è un binomio vincente – forse, necessario – ma dobbiamo tenere insieme la ricchezza formativa dell’umanesimo e la forza innovativa della tecnica. Non si tratta né di sostenere che dobbiamo usare la tecnologia senza farci usare dalla tecnologia, tantomeno di coniugare genericamente tradizione e innovazione: più semplicemente abbiamo la necessità di pensare la scuola nella sua essenza che è quella del laboratorio, della bottega, in cui maestro e allievo lavorano insieme condividendo insegnamento e apprendimento nel dramma formativo che li accomuna. La scuola è un laboratorio se è in grado, al di là dei provvedimenti ministeriali, di rinnovarsi quotidianamente a partire dalla libertà che c’è alla base dell’antico e sempre attuale rapporto tra allievo e maestro. La scuola digitale ha un grande futuro se dentro di sé conserva il dramma della crescita umana. Se conserva quell’asinello che saliva saliva saliva e portava mia nonna dai bambini che aspettavano la loro maestra.