di Giancristiano Desiderio
I politici, di ogni ordine e grado, e gli intellettuali, di ogni scuola e valore, hanno sulla bocca sempre una parola: giustizia. I politici la usano per accarezzare ed eccitare i sentimenti e i risentimenti degli elettori, con il risultato che più promettono giustizia e più commettono ingiustizie e pasticci; gli intellettuali non sono da meno, e forse anche peggiori, così invece di chiarire e dare un contributo di luce e onestà annebbiano ancor più il paesaggio sommando confusione teorica a retorica pratica. Ragion per cui nulla è più equivoco del concetto di giustizia e se non fosse impossibile converrebbe sopprimere o bandire la parola che per contrappasso è diventata la seducente maschera dell’ingiustizia.
Di cosa parliamo quando parliamo di giustizia? E’ bene fare, come da sempre ci invita e ci aiuta a fare Croce, alcune differenze. Uno dei significati possibili di giustizia è quello di ideale o bene morale e l’ “uomo giusto” è l’uomo buono e libero. Un secondo significato è quello in cui giustizia sta per diritto, legalità, stato: è questo il primo momento della vita civile che, va da sé, non può essere ridotta alla sola sfera “economica” perché è più larga e libera e proprio perché è più ampia e libera è in grado di modificare attraverso critica, pensiero e lotte i suoi istituti adeguandoli di volta in volta alle rinnovate esigenze e all’accrescimento o rinsaldamento della vita libera. Questi significati della parola giustizia – ai quali si potrebbe aggiungere anche l’altro di virtù, “uomo virtuoso” – non pongono problemi di sorta perché in essi non vi è l’idea malsana di sostituirsi alla pratica e alla coscienza della libertà alla quale spetta il primato per pensare e vivere degnamente. I problemi nascono quando la giustizia è intesa, in modo del tutto generico e quindi predisposto all’inganno e al pericolo, come eguaglianza tra gli uomini. Non nel senso che gli uomini sono uguali nella libertà come è sacrosanto che sia, ma nel significato di una giustizia sociale e politica in cui gli uomini sono uguali materialmente e utilmente e quando non lo sono è proprio la politica – la giustizia politica o la politica giustiziera – che s’incarica di propugnare e ristabilire l’ordine dell’uguaglianza sociale. Dio ci scansi e liberi da un simile triste inganno che, purtroppo, non appartiene solo al passato ma è declinato anche al presente e al futuro con le varie forme di statalismo, fiscalismo e redistribuzione del reddito.
La giustizia sociale, con cui si persegue l’eguaglianza tra gli uomini, ha come suoi obiettivi un’economia e un benessere eguali per tutti e, inoltre, la fine delle differenze sociali affinché gli uomini siano del tutto uguali nelle capacità e nelle opere. Tutti devono essere uguali a tutti e tutti devono esser buoni a tutto, un po’ come la cuoca di Lenin che avrebbe potuto anche governare (e, vien da dire, purtroppo nessuna cuoca, donna di buonsenso, prese il posto di Lenin). Sennonché, l’eguaglianza economica che produce uguale benessere per tutti non si sa cosa sia e gli uomini e le donne sono sempre individualmente in condizioni diverse e varie e nutrono sentimenti diversi e opposti e hanno bisogni differenti e quindi non si può dar loro, con eguali e statizzati mezzi di soddisfazione, il medesimo benessere. E proprio perché bisogni e soddisfazioni sono sempre diversi è non solo giusto ma anche necessario che vi siano differenze sociali e di ruolo affinché i diversi bisogni abbiano le diverse soddisfazioni e non si abbia così né la tirannia in cui uno è buono a tutti né la fesseria in cui tutti son buoni a tutto e, invece, ognuno è di volta in volta servo e padrone, per usare un’espressione famosa e non fuori luogo.
L’idea di livellare ed eguagliare le diversità del mondo nasce da una mal digerita concezione matematica e geometrica dell’intelligenza e della cultura che trasforma gli uomini in numeri e spazi e, oggi, in algoritmi. Ma la vita è tanto antimatematica quanto antigeometrica e si ribella agli schemi e alle astrattezze non solo dando a Cesare ciò che è di Cesare ma anche a Dio ciò che è di Dio. Nondimeno l’inapplicabilità dei precetti egalitari, che non tardano a creare davvero ingiustizie e privilegi, monopoli e caste e corporazioni, alimentano l’invidia sociale e il risentimento politico che l’uomo politico avveduto e l’intellettuale onesto dovrebbero almeno provare a rasserenare invece sono intenti ad alimentare con il vento e il fuoco della propaganda. Fiat justizia et pereat mundus è un detto sciocco che Hegel, più serio e più profondo, correggeva in fiat justizia ne pereat mundus giacché giustizia e ordine, ingiustizie e disordine, si fanno e si disfano nel mondo secondo il corso morale delle vite umane.
Che, dunque? La giustizia non sarà forse di un altro mondo? La storia si è incaricata di smentire non solo l’attuabilità del paradiso dell’eguaglianza ma anche la sua più modesta sostenibilità: i paradisi si sono rivelati infernali e il regno dell’eguaglianza, che la democrazia tende a realizzare soprattutto attraverso il conformismo di massa, prima che ingiusto e infelice è sommamente noioso. Così i delusi e invidiosi si consolano postulando un mondo altro in cui i torti saranno raddrizzati e le ingiustizie ripagate; tuttavia, l’unico mondo che sempre ci è dato conoscere e lavorare è questo che abitiamo e viviamo e nel quale sono non solo “tutti i nostri dolori, ma anche tutti i nostri amori”. Oggi, forse, non si nutrono più le utopie della fine delle diversità economiche e delle differenze politiche – come se qualcuno, un leader o un partito o una chiesa potesse avere il monopolio della verità che, come si può intuire, è un’idea comica – ciononostante ciò che ieri fu un’utopia oggi è un vago, impreciso, generico sentimento di giustizia sociale che pur è usato a beneficio della comunicazione e della propaganda, per generare i facili applausi e riempire il vuoto del giudizio e non c’è chi sappia proporre con serietà e avvedutezza l’etica della libertà che non inganna, non blandisce e non genera invidia ma affratella e risolleva negli sforzi e nel valore della conoscenza e della dignità. Ai giovani soprattutto, invece di infessirli con i pensierini e la stitichezza del “politicamente corretto”, conviene parlare con lungimiranza e rigore piuttosto che accarezzarli per il verso del pelo e additare loro la libertà non come un ideale paradisiaco – che nel suo fondo ha una morale eudemonistica che chiede piacere e poltroneria – ma come quella incessante combattente volontà e vigile intelligenza che conquistano gli agi attraverso i sacrifici, la pace attraverso la guerra, il riposo con il lavoro e non ingannano e non illudono perché educano alla bellezza della lotta della vita tramite la vita.